Abate Michel'Angelo Carelli - La carestia a Settefrati nel 1763-1764-

A cura di Renato Tamburrini.

 

Settefrati e tutto il Regno di Napoli furono colpiti da carestia per siccita' nel 1763-1764. Di questa carestia parla l'Abate Settefratese Michel'Angelo Carelli (certamente dell'attuale famiglia Carella) in una breve relazione posta sul Registro dei Matrimoni della Parrocchia della Tribuna.  Detta relazione fu pubblicata nel bollettino del Santuario di Canneto con una introduzione di Renato Tamburrini che inquadra con maestria i fatti narrati in un contesto storico piu' generale e con valide considerazioni. Si tratta di un documento interessante che mostra quanto possano essere pesanti gli effetti di un evento grave come una  carestia sul piano morale, religioso, economico e sociale, anche in una piccola comunita'; il tutto con una certa forza e senza retorica, per cui il documento stesso e' oltre che interessante anche di gradevole lettura.

     24/5/2002 -

Una pagina di storia

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Gli ultimi due fogli del Liber matrimoniorum della parrocchia di S: Maria della Tribuna di Settefrati sono occupati dal racconto della carestia 1763-64. Autore ne è l'abate Michelangelo Carelli, che fu parroco di questa chiesa dal 1762 (compare come economo parrocchia­le già dal 1758) al 1783.

Si tratta dell'unica apertura cronachistica — non priva di robustezza narrativa e di forza descrittiva — nella plurisecolare mera registrazione di battesimi, matrimoni e morti, peraltro preziosi documenti — tutti ancora da valorizzare — per uno studio serio delia storia di Settefrati.

Gli avvenimenti dei quali l'abate fu testimone furono certo grandi e le loro dimensioni non molto diverse da quelle che lui stesso ci descrive. Viaggiatori come il Grosley, il Cover, il Symonds, cronache gior­nalistiche anche straniere ci danno un quadro impressionante della carestia che in quegli anni colpì un po' tutta la nostra penisola, ma in ma­niera particolare lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli.

Dunque l'interesse del nostro documento mi pare non essere esclu­sivamente locale, dato il suo legame con un fenomeno che investì tutto il Regno (e di questo legame l'abate è pienamente consapevole). E mi pare che non ci troviamo di fronte alla facile ricostruzione retorico-letteraria in chiave moralistica che forse ci aspetteremmo data l'epoca e la persona.

L'attenzione alle impennate dei prezzi, all'accaparramento dei beni; l'accuratezza nella descrizione dei fatti sociali conseguenti alla ca­restia (vanificazione dei legami di parentela, l'abbandono della pietas per i defunti e di ogni altra pratica religiosa nell'acme della moria e della fame); la forza pittorica con cui sono narrati gli episodi più dram­matici di fame e di morte fanno della memoria dell'abate Carelli un piccolo ma dignitoso esempio della  concezione  cristiana  della storia.

Al primo posto sono i fatti religiosi e morali, con la gravità di tutte le loro conseguenze; ma non sono trascurati i fatti economici, sociali giuridici e politici. L'uomo, infatti, in una corretta visione cristiana, è unione di corpo e di anima; considerarlo come puro spirito o come materia significa non carpirlo nella sua interezza.

Per il resto lasciamo al lettore il piacere di addentrarsi in una pagina inedita di storia locale.

Renato Tamburrini 

AVVERTENZA — II testo si presenta in buone condizioni, tranne alcune irrimediabili sottolineature a penna, frutto di qualche lettura improvvida e poco rispettosa dei documenti. Nello stamparlo sono state rispettate la forma e la grafia dell'abate Carelli; solamente sono state sciolte le abbreviazioni. Le parole di cui non si è avuta certezza assoluta di interpretazione sono seguite da un punto in­terrogativo, quelle decisamente illegibili sono state  sostituite  da  asterischi.

  

AD  FUTURAM REI  MEMORIAM

 

Grande in vero fu il castigo da Dio mandato sopra le Pentapoli infami distruggendole col fuoco disceso dal cielo: più grande fu quello del diluvio universale, in cui restò miseramente sommerso il genere umano, eccettuata la picciola famiglia di Noe. Ma se con saggio occhio si rimira il flagello da Dio mandato negli ultimi mesi dell'1763, e primi sei mesi del 1764, pare, che si debba dire grandissimo essere stato questo castigo. Imperocbe sdegnato Iddio cantra li vìventi di tal tempo per i loro peccati, fin dal mese di Maggio del 1763 cominciò a castigare, poiché in detto mese fino al 20 di Giugno fu tanto continua l'acqua, che non v'era giorno, in cui non piovea, e non v'era ora del giorno in cui la pioggia non si facea sentire. Fu tale, e tanta lunga questa pioggia continoa, e diuturna che l'erba oltrapassò il grano, il quale restò da questa sottoposto, e fu di poca quantità.

La mistura poi con tant'acqua sementata parte non nacque, parte appena nata infracidassi, parte spuntata da terra, così restò senza pro­durre nemeno un'acino. Arrivati gli 20 di Giugno del 1763, si chiusero le catarattere del Cielo, scomparirono le nuole, e finì di piovere. Prin­cipiò una siccità si terrìbile, che ne nel mese di Giugno, ne nel mese di Luglio, ne in quello d'Agosto, ne nei principii di Settembre cascò dal cielo non dico una gocciola d'acqua, ma ne pure di ruggiada. Onde  per implorare la divina misericordia si facevano da pertutto proces­sioni di Penitenze, novene, stazioni, esercizii, missioni, ed altre opere pie; (1) ma queste non arrivarono a movere la misericordia di Dio. Si vedeva bensi in detti giorni penitenziali il cielo coperto di nuvole piene d'acqua, ma mai piove.

Si seccarono per tanto le biade, il grano, granturco, e in fine l'erba in guisa tale che le bestie non aveano che mangiare; seccaronsi ancora tutte le frondi degl'arbori, e ciò che è maraviglioso, si seccarono pure mólti arbori. Le fonti, quali mai aveano mancato, persero il loro corso, e si seccarono affatto, e non si trovava goccia d'acqua se non ne fiumi, li quali ancora erano impiccioliti. Non si trovò frutto di sorte alcuna; noci, ghiande, olive non si viddero; fu tale, e tale la scarsezza de frutti, che ne meno i spini portarono quei soliti frutti amari, de quali si andava in cerca. L'uva fu tanto poca, che appena bastò per mangiarla fresca, e ti vino si rimise in tanta poca quantità, che veniva tre, e quattro grani la carrafa (2), e si beveva a basto. Tutti i viveri mancarono in ogni genere, e in ogni specie.

A questa siccità si terribile si vidde un caso molto orribile, e fu questo. 1 pastori guidando le loro greci al pascolo, e non trovando erba, si saziavano di terreno, e di foglie secche cascate dagl'arbori quan­tunque d'està. Li Padroni vendemiando le loro chiuse, erano costretti ad unirsi sette, o pure otto patronali (?), e non potevano empire una vasca dì uva, e alcuni, anzi moltissimi non poterono vendemmiare, perche non aveano l'uva.

Finita la raccolta scarsissima, si viddero li miseri uomini, e donne a turme a turme uscire Per la canpagna, a cavare erba di ogni sorte, e se la mangiavano cruda; e perché fra queste erbe che prendevano, c'erano delle cattive, ne nacquero molti dìssordini. Le labra de viventi sempravano erba, e tale era la faccia e le mani: poi si gonfiavano i piedi fino alle genocchia, nasceva una diareia, e morivano miseramente (3)..

Alcuni si trovavano morti per la campagna con la bocca piena di erbe crude. Fu tanta, e tale la morte, che nella mia Parrocchia di S. Maria della Tribuna ne morirono venti in Settefrati, e dieci in altri paesi. Volesse il Cielo che solamente questi in Settefrati morti fussero, ma non è cosi per che l'altre parrochie ne contaro trecento, e più. Ne in Settefrati solamente fu questa mortalità, ma ne paesi convicini, e lontani; e si sa per relazione certa, che alcuni paesi restarono spopolati.

E tutti questi morirono di pura fame; perche il grano arrivò a docati sette li tomolo, e in Foggia fu venduto docati dieci il tomolo; la mistura docati sei, e più il tomolo, i lupini carlini trentuno il tomolo; e per dir tutto in una parola il pane di orzo, e di spelta si pagò un grano l'oncia (4). Non trovando gli viventi il pane, ma cibandosi solamente di erbe, si erano tanto intisichiti, che non potevano stendere un passo, non sapeano proferire altra parola, fuorché pane, pane, pane.

Crebbe però il castigo di Dio, poiché consumandosi a poco a poco fino a morire, sfuggivano la chiesa, e li SS. Sacramenti, e vedendosi avanti l'occhi la morte non pensavano all'anima, ma al pane. Le Madri, e li Padri abbandonarono gli figli; i figli li genitori; li parenti gl'altri parenti; l'amici l'altri amici; ognuno viveva solo, e se qualcheduno avea un tozzo di pane, di nascosto non se lo mangiava, ma se lo divorava. Tutto era lutto, tutto miserie, ed io non avea animo di comparire, perche avanti le porte delle case, per le strade, per le piazze, nella Chiesa si vedevano spettacoli.

Non si trovavano persone, che conducevano i morti alla Chiesa, e li Parrochi erano costretti a sborzare per pagare chi li conduceva, ne voleano danaro, ma sólamente il pane; poiché de danari non poteano servirsi, mentre non era la libertà poter comprare il pane. Non si udi­vano pianti, suoni di campane per i morti, ma senza funerali e preci erano buttati dentro gli sepolcri, e quanti venivano per essere pagati quelli, che li conducevano, dicevano abbiamo sepellito il tale, la tale etc. Arrivò tant'oltre questo, che alla fine si conducevano con le bestie.

Il Re sentendo tanta mortalità per il regno, ordinò, che non si sepellissero i morti nelle Chiese, ma un miglio fuori de paesi in luogo dissabitato.

Non fu persona alcuna, che prendesse moglie (5), non si sentivano canti, e suoni, non vi era differenza di giornate. A spettacolo sì orribile non ci fu persona alcuna, che si movesse a compassione; ma li ricconi sempre più avidi di danaro, strengevano le vettovaglie, accrescevano il prezzo, e se il danaro non andava avanti, non si trovava robba.  Nascondevano il grano dentro le botti, muravano le porte delle stanze ac­ciocché il prezzo arrivasse al non plus ultra.

Finalmente mossosi a compassione il buono Dio nel mese di Giugno 1764 {quando i ricconi pensavano di empire le cisterne di da­naro) uscì nelle parti di S. Germano, e ne luoghi vicini il grano nuovo, e si vendè a carlini dodici il tomolo e di mano in mano andava sce­mando, finche arrivò a carlini otto il tomolo di grano; e di mistura se ne fece in tanta quantità, che non si ebbe dove collocarla, e di mupo (?), ghianda, e altro fu tutto (?), e tale, che per la quantità fu disprezzata.

Prima di porre fine, sappiate o posteri, che in tempo di carestia si grande, che simile al mondo non è trovata, e spero che non si trove­rà, gli viventi non solamente abbandonarono le proprie carni, nulla curando se perdevano e moglie e figli, figlie, e mariti, e Padri, e Madri etc. ma ancora abbandonaro li loro averi, non sementandogli, non potan­dogli, e restarono tutti incolti. O posteri ben fortunati e mille volte for­tunati, che in tempo tale non eravate nel mondo, termino, e vi scongiuro che sempre pregate Dio, accioche da simile flagello vi liberi. Amen. Settefrati in tempo della orribile Carestia incominciata nel fine del 1763, e principio... ne metà del 1764.

D. Michel'Angelo Abbate Carelli osservatore di tale spettacolo.

 

(1)Anche dalla Gazzetta di Berna (7 aprile 1764) apprendiamo che a Napoli si facevano processioni e preghiere per scongiurate gli effetti della carestìa.

(2)Il grano era la decima parte del carlino; 10 carlini facevano un ducato. La caraffa corrispondeva a Napoli a 1. 0,7.

(3)II Lalande (« Voyage d'un Francais en Italie », Parigi 1769) parla di infelici che morivano di fame o delle malattie che porta la cattiva nutrizione (voi. V, pp. 209-210). E il quadro clinico che emerge dalla descrizione dell'abate è chiarissimo: si tratta di morti per fame e per le conseguenze della nutrizione scarsa e cattiva.

(4)Il tomolo è una misura di capacità che ancora oggi si usa nelle nostre zone; corrisponde a 1. 55,5; un tomolo di grano pesa circa 45 Kg. Un'oncia equi­valeva  a grammi  26.

(5)Questa informazione è confermata dal Liber matrimoniorum: non ci sono matrimoni registrati dal 20 settembre 1762 al 15 luglio 1765.

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