Una
pagina di storia
Gli ultimi due fogli del Liber matrimoniorum della parrocchia
di S: Maria della Tribuna di Settefrati sono occupati dal racconto della
carestia 1763-64. Autore ne è l'abate Michelangelo Carelli, che fu
parroco di questa chiesa dal 1762 (compare come economo parrocchiale
già dal 1758) al 1783.
Si tratta dell'unica apertura cronachistica — non priva di
robustezza narrativa e di forza descrittiva — nella plurisecolare mera
registrazione di battesimi, matrimoni e morti, peraltro preziosi
documenti — tutti ancora da valorizzare — per uno studio serio delia
storia di Settefrati.
Gli avvenimenti dei quali l'abate fu testimone furono certo
grandi e le loro dimensioni non molto diverse da quelle che lui stesso
ci descrive. Viaggiatori come il Grosley, il Cover, il Symonds, cronache
giornalistiche anche straniere ci danno un quadro impressionante della
carestia che in quegli anni colpì un po' tutta la nostra penisola, ma in
maniera particolare lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli.
Dunque l'interesse del nostro documento mi pare non essere
esclusivamente locale, dato il suo legame con un fenomeno che investì
tutto il Regno (e di questo legame l'abate è pienamente consapevole). E
mi pare che non ci troviamo di fronte alla facile ricostruzione
retorico-letteraria in chiave moralistica che forse ci aspetteremmo data
l'epoca e la persona.
L'attenzione alle impennate dei prezzi,
all'accaparramento dei beni; l'accuratezza nella descrizione dei fatti
sociali conseguenti alla carestia (vanificazione dei legami di
parentela, l'abbandono della pietas per i defunti e di ogni altra
pratica religiosa nell'acme della moria e della fame); la forza
pittorica con cui sono narrati gli episodi più drammatici di fame e di
morte fanno della memoria dell'abate Carelli un piccolo ma dignitoso
esempio della
concezione
cristiana
della storia.
Al primo posto sono i fatti religiosi e morali, con la
gravità di tutte le loro conseguenze; ma non sono trascurati i fatti
economici, sociali giuridici e politici. L'uomo, infatti, in una
corretta visione cristiana, è unione di corpo e di anima; considerarlo
come puro spirito o come materia significa non carpirlo nella sua
interezza.
Per il resto lasciamo al lettore il piacere di addentrarsi in
una pagina inedita di storia locale.
Renato Tamburrini
AVVERTENZA — II testo si presenta in buone
condizioni, tranne alcune irrimediabili sottolineature a penna, frutto
di qualche lettura improvvida e poco rispettosa dei documenti. Nello
stamparlo sono state rispettate la forma e la grafia dell'abate Carelli;
solamente sono state sciolte le abbreviazioni. Le parole di cui non si è
avuta certezza assoluta di interpretazione sono seguite da un punto
interrogativo, quelle decisamente illegibili sono state
sostituite
da
asterischi.
AD
FUTURAM REI
MEMORIAM
Grande in vero fu il castigo da Dio mandato sopra le Pentapoli infami
distruggendole col fuoco disceso dal cielo: più grande fu quello del
diluvio universale, in cui restò miseramente sommerso il genere umano,
eccettuata la picciola famiglia di Noe. Ma se con saggio occhio si
rimira il flagello da Dio mandato negli ultimi mesi dell'1763, e primi
sei mesi del
1764,
pare, che si debba dire grandissimo essere stato questo castigo.
Imperocbe sdegnato Iddio cantra li vìventi di tal tempo per i loro
peccati, fin dal mese di Maggio del 1763
cominciò a castigare, poiché in detto mese
fino al 20 di
Giugno fu tanto continua l'acqua, che non v'era giorno, in cui non
piovea, e non v'era ora del giorno in cui la pioggia non si facea
sentire. Fu tale, e tanta lunga questa pioggia continoa, e diuturna che
l'erba oltrapassò il grano, il quale restò da questa sottoposto, e fu di
poca quantità.
La mistura poi con tant'acqua sementata parte non nacque, parte appena
nata infracidassi, parte spuntata da terra, così restò senza produrre
nemeno un'acino. Arrivati gli
20 di Giugno del
1763, si
chiusero le catarattere del Cielo, scomparirono le nuole, e finì di
piovere. Principiò una siccità si terrìbile, che ne nel mese di Giugno,
ne nel mese di Luglio, ne in quello d'Agosto, ne nei principii di
Settembre cascò dal cielo non dico una gocciola d'acqua, ma ne pure di
ruggiada. Onde per
implorare la divina misericordia si facevano da pertutto processioni di
Penitenze, novene, stazioni, esercizii, missioni, ed altre opere pie;
(1) ma queste non arrivarono a movere la misericordia di Dio. Si vedeva
bensi in detti giorni penitenziali il cielo coperto di nuvole piene
d'acqua, ma mai piove.
Si seccarono per tanto le biade, il grano, granturco, e in fine l'erba
in guisa tale che le bestie non aveano che mangiare; seccaronsi ancora
tutte le frondi degl'arbori, e ciò che è maraviglioso, si seccarono pure
mólti arbori. Le fonti, quali mai aveano mancato, persero il loro corso,
e si seccarono affatto, e non si trovava goccia d'acqua se non ne fiumi,
li quali ancora erano impiccioliti. Non si trovò frutto di sorte alcuna;
noci, ghiande, olive non si viddero; fu tale, e tale la scarsezza de
frutti, che ne meno i spini portarono quei soliti frutti amari, de quali
si andava in cerca. L'uva fu tanto poca, che appena bastò per mangiarla
fresca, e ti vino si rimise in tanta poca quantità, che veniva tre, e
quattro grani la carrafa (2), e si beveva a basto. Tutti i viveri
mancarono in ogni genere, e in ogni specie.
A questa siccità si terribile si vidde un caso molto orribile, e fu
questo. 1 pastori guidando le loro greci al pascolo, e non trovando erba,
si saziavano di terreno, e di foglie secche cascate dagl'arbori
quantunque d'està. Li Padroni vendemiando le loro chiuse, erano
costretti ad unirsi sette, o pure otto patronali (?), e non potevano
empire una vasca dì uva, e alcuni, anzi moltissimi non poterono
vendemmiare, perche non aveano l'uva.
Finita la raccolta scarsissima, si viddero li miseri uomini, e donne a
turme a turme uscire Per la canpagna, a cavare erba di ogni sorte, e se
la mangiavano cruda; e perché fra queste erbe che prendevano, c'erano
delle cattive, ne nacquero molti dìssordini. Le labra de viventi
sempravano erba, e tale era la faccia e le mani: poi si gonfiavano i
piedi fino alle genocchia, nasceva una diareia, e morivano miseramente
(3)..
Alcuni si trovavano morti per la campagna con la bocca piena di erbe
crude. Fu tanta, e tale la morte, che nella mia Parrocchia di S. Maria
della Tribuna ne morirono venti in Settefrati, e dieci in altri paesi.
Volesse il Cielo che solamente questi in Settefrati morti fussero, ma
non è cosi per che l'altre parrochie ne contaro trecento, e più. Ne in
Settefrati solamente fu questa mortalità, ma ne paesi convicini, e
lontani; e si sa per relazione certa, che alcuni paesi restarono
spopolati.
E tutti questi morirono di pura fame; perche il grano arrivò a docati
sette li tomolo, e in Foggia fu venduto docati dieci il tomolo; la
mistura docati sei, e più il tomolo, i lupini carlini trentuno il tomolo;
e per dir tutto in una parola il pane di orzo, e di spelta si pagò un
grano l'oncia (4). Non trovando gli viventi il pane, ma cibandosi
solamente di erbe, si erano tanto intisichiti, che non potevano stendere
un passo, non sapeano proferire altra parola, fuorché pane, pane, pane.
Crebbe però il castigo di Dio, poiché consumandosi a poco a poco fino a
morire, sfuggivano la chiesa, e li SS. Sacramenti, e vedendosi avanti
l'occhi la morte non pensavano all'anima, ma al pane. Le Madri, e li
Padri abbandonarono gli figli; i figli li genitori; li parenti gl'altri
parenti; l'amici l'altri amici; ognuno viveva solo, e se qualcheduno
avea un tozzo di pane, di nascosto non se lo mangiava, ma se lo divorava.
Tutto era lutto, tutto miserie, ed io non avea animo di comparire,
perche avanti le porte delle case, per le strade, per le piazze, nella
Chiesa si vedevano spettacoli.
Non si trovavano persone, che conducevano i morti alla Chiesa, e li
Parrochi erano costretti a sborzare per pagare chi li conduceva, ne
voleano danaro, ma sólamente il pane; poiché de danari non poteano
servirsi, mentre non era la libertà poter comprare il pane. Non si
udivano pianti, suoni di campane per i morti, ma senza funerali e preci
erano buttati dentro gli sepolcri, e quanti venivano per essere pagati
quelli, che li conducevano, dicevano abbiamo sepellito il tale, la tale
etc. Arrivò tant'oltre questo, che alla fine si conducevano con le
bestie.
Il Re sentendo tanta mortalità per il regno, ordinò, che non si
sepellissero i morti nelle Chiese, ma un miglio fuori de paesi in luogo
dissabitato.
Non fu persona alcuna, che prendesse moglie (5),
non si sentivano canti, e suoni, non vi era differenza di giornate. A
spettacolo sì orribile non ci fu persona alcuna, che si movesse a
compassione; ma li ricconi sempre più avidi di danaro, strengevano le
vettovaglie, accrescevano il prezzo, e se il danaro non andava avanti,
non si trovava robba.
Nascondevano il grano dentro le botti,
muravano le porte delle stanze acciocché il prezzo arrivasse al non
plus ultra.
Finalmente mossosi a compassione il buono Dio nel mese di Giugno 1764 {quando
i ricconi pensavano di empire le cisterne di danaro) uscì nelle parti
di S. Germano, e ne luoghi vicini il grano nuovo, e si vendè a carlini
dodici il tomolo e di mano in mano andava scemando, finche arrivò a
carlini otto il tomolo di grano; e di mistura se ne fece in tanta
quantità, che non si ebbe dove collocarla, e di mupo (?), ghianda, e
altro fu tutto (?), e tale, che per la quantità fu disprezzata.
Prima di porre fine, sappiate o posteri, che in tempo di carestia si
grande, che simile al mondo non è trovata, e spero che non si troverà,
gli viventi non solamente abbandonarono le proprie carni, nulla curando
se perdevano e moglie e figli, figlie, e mariti, e Padri, e Madri etc.
ma ancora abbandonaro li loro averi, non sementandogli, non potandogli,
e restarono tutti incolti. O posteri ben fortunati e mille volte
fortunati, che in tempo tale non eravate nel mondo, termino, e vi
scongiuro che sempre pregate Dio, accioche da simile flagello vi liberi.
Amen. Settefrati in tempo della orribile Carestia incominciata nel fine
del 1763, e principio... ne metà del 1764.
D. Michel'Angelo Abbate Carelli osservatore di tale spettacolo.
(1)Anche dalla Gazzetta di Berna (7 aprile
1764) apprendiamo che a Napoli si facevano processioni e preghiere per
scongiurate gli effetti della carestìa.
(2)Il
grano era la decima parte del carlino; 10 carlini facevano un ducato. La
caraffa corrispondeva a Napoli a 1. 0,7.
(3)II
Lalande (« Voyage d'un Francais en Italie », Parigi 1769) parla di
infelici che morivano di fame o delle malattie che porta la cattiva
nutrizione (voi. V, pp. 209-210). E il quadro clinico che emerge dalla
descrizione dell'abate è chiarissimo: si tratta di morti per fame e per
le conseguenze della nutrizione scarsa e cattiva.
(4)Il tomolo è una misura di capacità
che ancora oggi si usa nelle nostre zone; corrisponde a 1. 55,5; un
tomolo di grano pesa circa 45 Kg. Un'oncia equivaleva
a grammi
26.
(5)Questa
informazione è confermata dal Liber matrimoniorum: non ci sono matrimoni
registrati dal 20 settembre 1762 al 15 luglio 1765.
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