Renato Tamburrini
Note sul dialetto di Settefrati
Terza edizione
3a edizione Copyright Renato Tamburrini, settembre 2011
Questo documento è concesso dall’autore per la pubblicazione sul sito www.settefrati.net. I diritti d’autore non sono ceduti. La citazione, la riproduzione integrale o parziale e la diffusione per scopi non commerciali sono autorizzate, purché sia indicata sempre la fonte. Non è permessa la modifica del testo né il suo utilizzo per fini di lucro. .
Ringraziamenti
In questa edizione ho apportato alcune modifiche alla parte grammaticale, ma la revisione più consistente è stata fatta al dizionario, che ha raggiunto le 1147 parole, quasi il triplo della prima edizione; anche l’etimologia ha avuto importanti miglioramenti, soprattutto grazie al confronto con le aree dialettali abruzzese-molisana e campana. Il risultato numerico è dovuto in gran parte alle segnalazioni e ai consigli che ho avuto via e-mail e a voce, che hanno superato abbondantemente le mie aspettative. Non potendo ricordarli tutti, e chiedendo preliminarmente scusa ai dimenticati, accenno brevemente ai compaesani che sono stati più attivi ed entusiasti.
Ricordo anzitutto la prima, Graziella Buzzeo Ginsburg (che a poche ore dalla pubblicazione sul sito mi ha fulmineamente segnalato “streviére”) e i fratelli Maria e Dante Zazà, figli di Michele, naturalmente prodighi di parole e di ricordi familiari, anche commoventi. Un grazie speciale a Domenico Rustici, a cui devo non solo la segnalazione di varie parole rare, ma anche alcune conversazioni con riflessioni etimologiche e qualche correzione di significato, a Cesare Guerriero Musilli (a cui debbo una perla come iëmmèlle), ad Aldo Venturini, che si è subito appassionato all’impresa, contribuendo con dovizia di parole e con la discussione di vari punti, sostenendomi nei casi più incerti. Mi piace anche ringraziare tutti quelli che si sono complimentati del lavoro via e-mail o a voce -e sono veramente tanti per poterli ricordare tutti: da Riccardo Frattaroli, già fotografo direi ufficiale del sito, e oggi sindaco del nostro paese, ma soprattutto indimenticabile compagno di una classe elementare di tanti anni fa, a Francesco Cardelli, a Marcella Fabrizio Cardelli, a Renato Vitti. Un ringraziamento particolare lo debbo a Tonino Di Pede, di Sora, che mi ha dato la possibilità di consultare un suo interessante e utilissimo articolo non ancora pubblicato “Di alcune piante nella tradizione popolare sorana”. Con lui ho pure discusso on line di varie questioni, storiche e linguistiche, con molto profitto.
Un pensiero particolare va all’amico Antonio Vitti che attraverso questo sito ha reso e rende possibile il recupero e la preservazione della memoria comune con iniziative come questa -per la quale mi ha pure inviato preziosi contributi - insieme a tante altre, tutte importanti e meritevoli di essere incrementate e sostenute.
Infine vorrei dedicare questo lavoro, che considero un contributo alla “settefratesità”, a mia sorella Anna, che amò il nostro paese intensamente e continuamente, da maestra, da sindaco e da “attivista” parrocchiale, e a quella di tre ragazzi settefratesii della mia generazione - che ci hanno lasciato in tempi diversi: Fernando Vitti, Vitale Vitti e Renzo Venturini, amico di sempre e per qualche anno anche mio compagno di studi filologici e linguistici.
INDICE
1. Premessa
1.1 Lingua e dialetto p. 6 1.2 Obiettivi e metodo p. 7 1.3 Il quadro storico p. 9 1.4 Il quadro linguistico p. 12 1.5 Il settefratese scritto p. 14
2. FONETICA 2.1 Le vocali p. 17 2.2 Le consonanti p. 19
3. MORFOLOGIA 3.1 I nomi p. 21 3.2 I pronomi p. 22 3.3 I verbi p. 23 3.4 Articoli congiunzioni avverbi p. 26
4. RIFERIMENTI p. 27
5. DIZIONARIO p. 28
Carta dei dialetti italiani
1.1 Lingua e dialetto
Anche se oggi quasi tutti quelli che parlano in dialetto lo utilizzano più o meno largamente accanto alla lingua “ufficiale” e sono generalmente consapevoli che si tratta di uno strumento di livello assai diverso (ovviamente quando sono tecnicamente in in una situazione di diglossia, cioè riescono ad esprimersi sia in lingua nazionale che in dialetto), non è facile definire bene tutte le differenze. Infatti anche nella lingua “ufficiale” esistono livelli diversi a seconda dell’ambiente culturale e sociale e delle finalità della comunicazione (i cosiddetti registri linguistici). Lo stesso parlante si può esprimere in modi diversi a seconda del contesto, dal più familiare al più ufficiale. Semplificando possiamo dire che una parlata dialettale ha queste caratteristiche:
a) non ha una lingua scritta o ne ha una confinata a situazioni tipiche come bozzetti, piccole narrazioni, poesie; b) è usata in un territorio abbastanza limitato e spesso differisce a pochi chilometri di distanza; c) è inadatta a situazioni di tipo istituzionale o ufficiale (atti pubblici, scuola, comunicazione scientifica ecc.).
Ma proprio per queste sue caratteristiche il dialetto si va a collocare nel cuore della “familiarità”, e rappresenta uno degli elementi principali con cui una comunità si riconosce: le tradizioni, le feste, il ricordo di un ambiente naturale e umano comune sono veicolati da un linguaggio di nicchia, spesso ricco di espressioni idiomatiche e termini specifici, considerati in questi contesti più pertinenti di quelli conosciuti attraverso la lingua colta ufficiale.
D’altra parte i dialetti, non diversamente dalle lingue - anzi in misura maggiore perché non hanno un corredo di testi scritti paragonabili a quelli che contribuiscono a rendere più stabili le lingue- non sono immobili nel tempo e sono sottoposti a cambiamenti anche importanti, per il continuo interscambio sia con la lingua colta comune che con le parlate più vicine; anche se i parlanti nell’arco della loro esistenza non avvertono pienamente l’entità dei cambiamenti e anzi a volte, quando il corso della storia è più lento, hanno l’impressione quasi dell’immobilità.
Nella civiltà attuale, con l’abbondanza di influenze provenienti dai media, che si sono aggiunte a quelle classiche della scuola, della burocrazia statale e della predicazione, è naturale che il dialetto sia sottoposto a rischi di estinzione e di omologazione in modo anche brusco.
E mi pare veramente significativo, anche se apparentemente contraddittorio, che lo spazio privilegiato per questa testimonianza di identità sia offerto dalla rete globale del web. 1.2 Obiettivi e metodo
Lo scopo di questo lavoro è quello di offrire una panoramica del dialetto di Settefrati attraverso la descrizione delle sue principali caratteristiche fonetiche e morfologiche, seguite dal dizionario delle parole con l’indicazione del significato in italiano comune e - quando possibile e abbastanza sicuro- anche dell’etimologia, soprattutto per quei termini che apparentemente o sostanzialmente divergono dall’italiano comune.
La trascrizione Il primo problema in cui si imbatte chi voglia affrontare un argomento di questo genere è la trascrizione: avendo a che fare con parlate senza tradizione scritta (o quasi) e con abbondante presenza di suoni non frequenti nella lingua nazionale comune, si può cadere nella più assoluta arbitrarietà; chi si occupa di dialettologia in modo professionale ricorre a una trascrizione fonetica che utilizza un segno diverso per ciascun suono: il risultato è ineccepibile sotto il profilo scientifico, ma il tutto risulta poi difficilmente leggibile per il pubblico, anche di media cultura, che si avventuri con curiosità nella foresta delle parole patrie.
Ritenendo che questo lavoro non sia tanto destinato agli studiosi della materia, quanto piuttosto a persone che vogliono approfondire qualche aspetto del dialetto, prima di tutto ho deliberatamente evitato l’uso delle note a piè di pagina (salvo due inevitabili ma brevi precisazioni per quanto riguarda la fonetica delle vocali) che in molti casi avrebbero sì aiutato ad approfondire qualche punto, ma anche contribuito ad appesantire ancora di più una materia già di suo un po’ ostica. Questa scelta è stata anche confortata dall’idea che la pubblicazione, almeno in questa stesura, è destinata a un sito web generalmente non frequentato da addetti ai lavori. Per quanto riguarda la trascrizione delle parole quindi mi sono tenuto il più possibile vicino all’italiano comune e perciò ho usato praticamente solo due accorgimenti: come si può vedere meglio nella parte dedicata alla fonetica delle vocali, nel dialetto di Settefrati (ma anche dei paesi vicini) c’è una grande quantità di e semivocaliche –con un suono contraddistinto da una forte lenizione ignoto all’italiano comune, ma frequente ad esempio nel francese- che spesso quando si scrive qualcosa in dialetto non sono neppure segnalate, perché sono percepite quasi come non esistenti. Da una parte sarebbe fuorviante trascriverle come la e dell’italiano comune, che ha sempre un suono pieno, anche quando non è accentata; dall’altra l’assenza totale della trascrizione sarebbe ancora più dannosa per la comprensione e ancora più sbagliata dal punto di vista linguistico; e perciò ho scelto di segnalarle trascrivendo questa “e” debole come ë, seguendo l’uso prevalente nelle pubblicazioni di tipo dialettologico. Ad esempio, decisamente non va bene “frrar”, che lo rende incomprensibile e ostico, (ugmente direi di f’rrar’), ma neppure “ferrare”, che solo chi conosce il dialetto potrebbe pronunciare correttamente: nell’opuscolo e soprattutto nella parte dedicata al dizionario, si troverà “fërràrë” che garantisce l’integrità della parola ma avverte che quelle “e” sono deboli o debolissime. Il secondo accorgimento che ho utilizzato è quello di segnare in ogni parola l’accento della sillaba tonica , di cui vedremo in dettaglio il ruolo centrale nel sistema fonetico dei dialetti italiani centro-meridionali, e quindi anche del settefratese. Con queste due “regole” spero di essere riuscito a mantenere una certa aderenza alla reale fonetica del settefratese senza stravolgimenti, e nello stesso tempo a fornire uno strumento che renda le parole abbastanza leggibili.
Non mi sfugge che anche questi due accorgimenti, specialmente il primo (segnalazione della e semivocalica) potrebbero però essere fastidiosi e inadatti allo scopo per tutti coloro che vogliono scrivere in dialetto (poesie, ricordi, citazione di una parola nel contesto di uno scritto in lingua…). Per questa ragione più avanti (a pag. 15) ho fatto una proposta complessiva sulla scrittura del settefratese che potrebbe semplificare il lavoro e nello stesso tempo presentare le parole dialettali in maniera leggibile e uniforme.
1.3 Il quadro storico: le origini, la koinè romana, la frantumazione
Le radici della storia comune dei popoli che abitano la penisola italiana affondano sicuramente nei millenni. Ma per quanto riguarda la lingua bisogna partire dal primo millennio avanti Cristo, anche se relitti di lingue precedenti (pre-indoeuropee) sono presenti come fenomeni di sostrato anche nei nostri dialetti.
L’antichità, i Sanniti, i Romani Nel primo millennio a.C., con varie ondate, popolazioni di lingua indoeuropea provenienti dal Nord o, secondo alcuni, dalla penisola balcanica, entrarono in Italia. Con il nome Osco-Sabelli sono chiamati tutti i popoli di lingua osca che popolarono la penisola, esclusa la Padania: non sono compresi gli Etruschi, sulla cui origine, nonostante tutti gli studi non è stata data ancora una lettura definitiva, e i Latini, appartenenti anch’essi al ceppo indoeuropeo, ma arrivati in Italia probabilmente qualche secolo prima degli Osco-Sabelli. Latini e Osco-Sabelli presentano comunque molte affinità religiose, culturali e linguistiche. Se ne deduce che fossero in qualche modo “imparentati”: d’altronde le fonti antiche, avvolte nella leggenda ma non per questo sicuramente infondate, legano i Sabini veri e propri sia alla proto-storia dei Romani che a quella dei Sanniti, una delle etnie più rappresentative del gruppo osco-sabellico. Attraverso l’interazione con i popoli che già la abitavano, che gli studiosi generalmente chiamano “mediterranei” senza pronunciarsi molto sulla loro natura etnico-linguistica, si formò una civiltà omogenea anche dal punto di vista linguistico: alcune caratteristiche proprie della lingua osca hanno attraversato l’unificazione del latino portata dal dominio di Roma, e sono tuttora persistenti. E’ a questa civiltà italica osco-sabellica (che nell’insieme si estendeva dalle Marche alla Calabria -dai Piceni ai Bruzi- e che si espandeva attraverso la pratica delle primavere sacre) che appartengono i nostri primi antenati documentati dalla storia. La nostra area era abitata sicuramente da popolazioni di questo ceppo: quando i Sanniti fecero la loro comparsa nella storia di Roma (intorno al 350 a.C.) la loro lega, con le grandi tribù dei Caracini, Caudini, Pentri e Irpini, rappresentava il più forte raggruppamento italico, e il loro dominio, che si era affermato nelle zone volsche e premeva verso le città greche della Campania, comprendeva con sicurezza Atina e Casinum. La valle del Liri era diventata una zona fortemente critica, in cui l’espansione romana e quella sannitica vennero in conflitto. A prescindere dalla veridicità della localizzazione della sannitica Cominium distrutta dai Romani nel 293 a.C. – comunemente e secolarmente riferita alla nostra valle, ma messa in dubbio da studi recenti- in ogni caso è incontrovertibile l’antichità dell’assetto urbano di Atina e della consistenza del suo territorio (l’atinate agro di Livio), con la leggendaria fondazione di Saturno e la fama consolidata di punto nodale della resistenza italica contro Enea, che le attribuisce Virgilio nell’Eneide. Come pure incontrovertibile è la presenza del santuario di Mefitis alle sorgenti del Melfa, vero e proprio locus sacer della nostra etnia, naturale via di comunicazione tra il Sannio e la valle del Liri, con un interesse sicuramente incrementato dalla presenza delle miniere di ferro.
Il mondo osco-sabellico venne a contatto con la forza dell’espansione romana e alla fine, dopo quasi tre secoli di lotte sostenute prevalentemente dal suo nocciolo duro sannita, dovette soccombere: l’ultimo grande episodio nel I secolo a.C. fu la guerra sociale che gli alleati italici - che avevano posto la capitale a Corfinium e battevano moneta con la scritta “Italia”- sostennero contro Roma per rivendicare parità di diritti: da lì in avanti la nostra area si innestò fortemente nella possente architettura statuale, militare e organizzativa del mondo romano (Atina diventa prefettura romana), fornendo attivamente militari, amministratori, letterati, poeti. La dominazione romana, che qualcuno ha definito la prima grande globalizzazione, comportò una vigorosa unificazione politico-amministrativa e linguistica della penisola italiana, con una fisionomia riconoscibile ancora oggi perfino nella divisione regionale, dovuta soprattutto all’opera di Augusto (30 a.C. -14 d.C), che sotto molti punti di vista possiamo considerare il vero padre fondatore dell’Italia. Sostanzialmente questa è la base fonetica, lessicale e grammaticale di tutti i nostri dialetti, al pari di tutta l’enorme area linguistica neo-latina. Naturalmente anche il latino parlato non era omogeneo e regolare come quello che leggiamo nei testi dei classici, ed è accertata la presenza di varietà locali e livelli linguistici diversi.
Il lungo Medioevo Dopo la caduta dell’impero romano (476 d.C) la nostra zona fu profondamente influenzata dai grandi centri monastici benedettini di San Vincenzo al Volturno e di Montecassino (fondato nel 529 d.C), non soltanto dal punto di vista religioso e culturale, ma anche politico-terrioriale. L’afferenza al ducato longobardo di Benevento e alle sue successive frantumazioni feudali - a partire dalla grande signoria di Capua- e l’appartenenza al Regno unificato dal normanno Ruggero II (1095-1154) documentano anche dal punto di vista amministrativo e politico un radicamento plurisecolare nel Meridione italiano. L’appartenenza all’area della grande civiltà della Longobardia minor beneventano-cassinese forse ha lasciato anche una testimonianza preziosa nel cuore della nostra tradizione, in quei vespri del 14 e del 29 agosto che, trasmessi oralmente nei secoli, sono quasi miracolosamente sopravvissuti ai reiterati tentativi di eliminazione messi in atto anche in tempi recenti. Quei salmi, quelle antifone, quegli inni, con molta probabilità riecheggiano i modi del cosiddetto canto lombardo , praticato nella cattedrale beneventana fino a oltre il 1000 e comunque sopravvissuto a lungo nel cenobio cassinese. E’ come se una gemma di un leggendario tesoro del passato fosse stata incastonata nel rito che forse più di ogni altro esprime l’identità e la memoria collettiva del paese.
Sul piano strettamente linguistico, dopo la caduta del dominio poltico unitario di Roma, in tutto il vasto territorio del suo impero le differenze si accentuarono, la fonetica si modificò sempre di più, e accaddero diversi fenomeni di semplificazione grammaticale e sintattica: si andarono così a formare svariate parlate, all’interno dell’’insieme delle lingue chiamate romanze o neo-latine. L’isolamento e la specificità fecero il resto, portando ad una forte frantumazione dialettale in tutta la penisola italiana, con particolare virulenza nelle zone montane, più isolate. Nel corso dei secoli anche i nostri dialetti si arricchirono di parole delle lingue di altre popolazioni che frequentavano l’Italia, e cosi abbiamo lemmi di origine gotica o longobarda, e poi francese e spagnola. In senso opposto, unificante o almeno omologante, agivano la lingua degli atti governativi e burocratici, la Chiesa con la predicazione, gli scambi con i paesi viciniori che evidentemente non cessarono mai del tutto, anche con la l’aumentata difficoltà nelle comunicazioni.
Tempi recenti Dopo l’unità d’Italia una serie di fenomeni concomitanti andò man mano ad aggiungersi e a rafforzare la tendenza omologante: basti citare il servizio militare obbligatorio, gli scambi dell’emigrazione, l’estensione della scolarizzazione; negli anni Trenta e Quaranta ci furono l’apparizione della radio, il calcio e le canzoni, l’organizzazione dei bambini e dei giovani nelle associazioni del regime fascista; e infine nell’ultimo dopoguerra la televisione, la scolarizzazione sempre più spinta e in qualche misura anche l’introduzione dell’italiano nella liturgia. Nel frattempo la creazione della Provincia di Frosinone nel 1927, con la separazione amministrativa dell’area di Sora e Cassino dal millenario retroterra campano, ha ovviamente comportato un aumento dell’influenza ciociaro- laziale nei nostri dialetti.
L’azione costante delle forze di frantumazione e di unificazione ha avuto come risultato quel dialetto -costantemente parlato per tutto il secolo scorso e ancora oggi fortemente vitale anche nelle comunità di emigrati- che molti di noi ancora conoscono abbastanza. Ovviamente i parlanti più anziani, o che hanno conservato all’estero il ricordo di una situazione più arcaica, hanno la percezione nostalgica di uno strato diverso del dialetto, rispetto al quale quello parlato in paese, sottoposto ad influenze ed evoluzioni continue, rappresenta comunque un allontanamento.
1.4 Il quadro linguistico
Il dialetto settefratese appartiene alla famiglia dei dialetti centro-meridionali, che si estendono dalle Marche alla Calabria. Più precisamente è un dialetto nord-campano con evidenti influenze delle vicine parlate del Lazio meridionale, dell’Abruzzo e del Molise. Il confine di questa vastissima area linguistica - che corrisponde quasi perfettamente alle zone di insediamento delle popolazioni osco-sabelliche prima del dominio romano- è segnato a nord da una linea che va grosso modo da Roma ad Ancona, mentre a sud ne sono escluse la Calabria meridionale e il Salento. La cartina a pag. 5 mostra un quadro sintetico della ripartizione dei dialetti italiani.
Lungo la cosiddetta linea Roma - Ancona ( linguisticamente fondamentale come quella La Spezia - Rimini, che separa i dialetti nord-italiani da quelli centrali) corre ad esempio il limite settentrionale dell’utilizzazione di ferraro per “fabbro”, frate per “fratello”, femmina per “donna”, figliomo e similari (patremo, fratemo, ecc.) per “mio figlio” ecc., tenere per “avere”. Il fascio delle isoglosse significative che segnano a nord il confine dell’area dialettale meridionale è rappresentato dalla carta a pag. 13 (isoglosse 8-12); nella stessa carta sono visibili le isoglosse che segnano il confine tra i dialetti del nord Italia e quelli dell’Italia mediana (isoglosse 1-7). E’ da sottolineare come queste linee corrispondano in una certa misura anche ai confini storici degli antichi stati italiani, cosicché la Toscana, che già ricalca in buona parte l’area etrusca dell’antichità, risulta linguisticamente ritagliata tra le due linee La Spezia - Rimini e Roma - Ancona; mentre quest’ultima, risalendo dal Lazio verso l’Umbria (sfiorando a sud Perugia) e le Marche, risale il cosiddetto “corridoio pontificio”, praticamente correndo lungo il confine tra lo stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Della grande famiglia dei dialetti dell’ area centro-meridionale il settefratese condivide le caratteristiche fondamentali dal punto di vista fonetico, morfologico e sintattico.
La cartina, riprodotta per gentile concessione dell’editore, è contenuta nel volumedi Grassi-Sobreo-Telmon, Introduzione alla dialettologia italiana. Roma-Bari, Laterza, 2003.
1.5 Il settefratese scritto
I testi scritti in settefratese sono molto pochi e spesso si tratta di componimenti scherzosi o occasionali. Dal punto di vista della trascrizione sono generalmente poco uniformi, non affidabili e redatti secondo l’estro individuale. In questo panorama -e senza fare torto ad altre personalità brillanti e interessanti che occasionalmente hanno scritto qualcosa in dialetto, a volte magari senza pubblicarlo, come è capitato al pittore Alfonso Capocci- occupano un posto diverso e del tutto particolare le composizioni poetiche di Michele Buzzeo, non solo per la quantità e la regolarità della produzione, durata tutta la vita, ma anche per la vastità delle tematiche liriche. Questa non è la sede per rendere ragione delle caratteristiche propriamente letterarie e poetiche della sua opera, ma vorrei accennare a aspetti importanti dal punto di vista linguistico. Per quanto riguarda il lessico, la lirica di Michele Buzzeo rappresenta un grande deposito di memoria dialettale, con la consapevolezza che -da letterato quale era- in qualche misura ha recepito termini della lingua colta o dell’italiano comune, integrandoli nel dialetto. Dal punto di vista della trascrizione poi resta esemplare per il tentativo di rendere il settefratese in modo piano, vicino al meridionale comune, in maniera non ostica e incomprensibile. Purtroppo devo dire con rammarico che, nonostante la presenza sul sito settefrati.net di una cospicua raccolta di poesie, la sua lezione è stata quasi completamente dimenticata e non è stato seguito da quelli che si sono cimentati nel dialetto scritto, che in generale, anche se certamente con buona intenzione, tendono invece a produrre testi veramente inaccettabili, intessuti di parole con apostrofi in luogo delle e semivocali debolmente pronunciate ovvero prive del tutto della segnalazione delle semivocali, che – ribadisco- hanno un suono debole, ma esistono. A mio parere un ritorno alla nettezza classica del modo di scrivere che si può apprendere dalle poesie di Michele Buzzeo – semmai con una marcatura più sistematica e regolare dell’accento tonico e qualche aggiustamento nell’uso di q e c- costituirebbe un buon programma per lasciarsi alle spalle le trascrizioni disordinate e depistanti che di solito si leggono nella produzione locale.
Ricapitolando, la mia proposta per la scrittura in dialetto è questa:
1) Nell’ambito di una ricerca professionale di tipo linguistico-dialettologico, vigono regole specifiche per tutti i caratteri, vocali e consonanti che siano (trascrizione fonetica).
2) Per un uso non specialistico, nel contesto di una citazione specifica, di un elenco, di un dizionario non professionale, dove però si deve comunque evidenziare l’esatto contenuto fonetico, è necessario segnalare: a. l’accento nella sillaba tonica di ciascuna parola, che è l’epicentro del sistema fonetico settefratese; di più, occorre che per la e e per la o sia correttamente segnato l’accento grave (è ò) per la pronunzia aperta e l’accento acuto (é ó ) per la pronunzia chiusa; b. le e semivocaliche: dopo qualche riflessione e qualche buon consiglio, sono arrivato alla conclusione che è preferibile e più leggibile l’uso della notazione standard dei lavori dialettologici, ovvero la e con la dieresi (ë). c. per la a e la i e u la accentate è sufficiente un solo tipo di accento perché non hanno la variazione del suono aperto/chiuso; generalmente le tastiere di computer offrono l’accento grave (à, ì, ù). Esempi: fërràrë, cuónë, òssa, gërëcónë, frèvë, chéssa
Avvertenza: con le tastiere senza caratteri accentati ricordo che si possono comunque ottenere con i tasti ALT + numero corrispondente à ALT+133 è ALT+130 é ALT+138 ë ALT+137 ì ALT+141 ò ALT+149 ó ALT+162 ù ALT+151
3) Per un uso letterario (epigrammatico, lirico, narrativo) può essere auspicabile che il testo non sia appesantito da segnalazioni speciali; perciò a. è sufficiente marcare la sillaba accentata, grave o acuta quando necessario (vedi punto 2 a); questo si può praticare tranquillamente, non perdendo nessuna segnalazione fonetica importante, perché la regola che le e non accentate si pronunziano debolissime non ha eccezioni. Esempi: ferràre, cuóne, òssa, gerecóne, frève, chéssa
b. nel caso di difficoltà a disporre di tastiere con le vocali accentate, e anche ad utilizzare il codice ASCII esteso, sarebbe preferibile attenersi alla trascrizione più “classica” possibile, appunto secondo la lezione di Michele Buzzeo, restituendo al dialetto semplicità e scorrevolezza, ed eliminando drasticamente l’uso di altri segni che lo rendono ostico e incomprensibile. E’ evidente che operando in questo modo(senza accento) si ha lo svantaggio che bisogna “sapere” dove cade l’accento, per distinguere le e semimute, e bisogna anche sapere se la pronunzia di o e e è aperta o chiusa: perciò è chiara la mia decisa preferenza per la soluzione 3 a ; con la 3 b si paga “dazio”, ma il costo tutto sommato sarebbe certamente più basso di quello che paghiamo leggendo i prodotti poetici degli ultimi tempi, a volte simpatici e arguti, ma resi complicati nella lettura, con tutte le incertezze e le incoerenze connesse alla notazione delle e in corpo di parola e in finale (del tipo: f’rrar, cuon, g’r’con ecc.) Esempi: ferrare, cuone, ossa, gerecone, freve, chessa
2. FONETICA
2.1 Le vocali
Il sistema vocalico del dialetto di Settefrati, come di tutte le parlate dell’Italia centro-meridionale, è governato dall’accento: questa è la ragione principale che spiega la maggior parte delle differenze rispetto alle parole dell’italiano comune. Potremmo dire che quello che accade in questo ambito è forse il punto più complicato della fonetica settefratese, e richiede una spiegazione abbastanza tecnica.
Nella sillaba non accentata le vocali e, i, o, u si riducono a semivocale ë, debolmente ma sicuramente pronunciata: questo fenomeno è osservabile praticamente in tutte le parole dialettali.
Nella sillaba accentata, vero e proprio centro fonetico della parola, in concomitanza con la riduzione descritta sopra, si producono due variazioni:
a) dittongazione, ossia la vocale semplice accentata si trasforma in dittongo: esempio tipico la o latina che diventa uo (bonus/ buónë, porcus/puórchë); in settefratese la dittongazione coinvolge anche la a accentata (che poi cambia il suono in o e in e: questo passaggio ulteriore è spiegato analiticamente più avanti)
b) metafonesi, ossia cambiamento di suono, spesso per influenza della vecchia vocale finale indebolita in ë: esempio tipico chiave/chiévë;
La a non accentata invece è più resistente: non si degrada a e semivocalica, e contemporaneamente nella parola non si produce il fenomeno dittongazione + metafonesi nelle vocali o e a della sillaba con l’accento: quindi nel complesso abbiamo un esito assai più vicino all’italiano comune (buónë, ma f. bòna, cuónë ma f. càna, uóssë ma pl. òssa).
Questi tre fenomeni spesso si combinano insieme e complessivamente accade che la vocale della sillaba tonica della parola viene anzitutto enfatizzata e “marcata” con un suono più forte e prolungato; contemporaneamente (storicamente forse in una fase successiva) è sottoposta anche a cambiamenti di suono (metafonesi), mentre le vocali delle sillabe non accentate (a meno che non si tratti di a non accentata, come abbiamo visto) si indeboliscono, fino quasi a scomparire, trasformandosi nella semivocale ë: cosicché tutta la parola latina sembra come ricostruirsi attorno alla sillaba accentata, vero e proprio “epicentro” di quello che potremmo chiamare un “terremoto fonetico”. Una ulteriore “enfatizzazione” della sillaba accentata è data dalla frequente presenza di raddoppiamento nella consonante che segue la vocale o il dittongo accentato nelle parole sdrucciole, vale a dire nelle quali l’accento cade sulla terzultima sillaba (esempi: uóssënë, àssëna, cénnërë, fràttëmë, màcchëna, marìttëmë, miéddëchë). Anche questa uleriore marcatura è specifica di Settefrati centro e già a Pietrafitta risulta praticamente assente.
Detto in altri termini, il dittongo come esito abituale della vocale tonica in presenza di e, i, o, u (ovvero della loro succedanea ë semivocalica) in finale di parola è un fenomeno ben radicato anche nell’italiano comune (buono da bonus), anche se abbastanza estraneo al toscano; nelle parlate centro-meridionali riguarda in modo prevalente la o accentata; nel settefratese (in Val di Comino sembra una sua caratteristica quasi esclusiva, ma si riscontra con un grado diverso anche a San Donato ed è presente in varie parlate abruzzesi e molisane) si manifesta anche in presenza di a tonica, producendo alla fine uó, se la finale della parola è una ë da o/u, ié se la finale della parola è una ë da e/i (cuómpë /chiémpë, cuónë/chiénë): alla dittongazione in questo caso si associa visibilmente la metafonesi, ovvero: nel caso del dittongo formato a partire dalla a (che darebbe ua o ia tipo cuànë/kiànë) la a (che tecnicamente è una vocale velare) subisce anche un cambiamento di suono verso la e (che è una vocale palatale), se preceduta dalla palatale i, e verso la velare o se preceduta dalla velare u (puónnë/piénnë, uóssënë/iéssënë, cuónë/kiénë). Probabilmente questo fenomeno si è verificato in una stadio successivo e si spiega con l’ armonizzazione dei suoni vocalici (u-o, e i-e sono più vicine e “facili” da pronunziare di u-a e i-a). (1) La metafonesi è comunque molto attiva in vari contesti: la a che tende sempre a diventare e dopo una i (kiévë, magnié), l’alternanza maschile/femminile (rùscë/róscia, nfùssë/nfóssa, ùrsë/órsa) e del singolare/plurale (uóvë/òva uóssë/òssa, pócë/pùcë), la coniugazione del verbo (i’ magnë/tu miégnë, i’ bévë/tu bìvë). La massima intensità del fenomeno si riscontra nel centro, e si attenua o si presenta con connotati diversi man mano che ci si spinge verso le frazioni del territorio comunale e poi nei paesi vicini. La dittongazione a carico della a, ma con gradazioni diverse, è attestata abbastanza sia in area nord-campana che abruzzese-molisana. A San Donato Val Comino (2), ad esempio, paese confinante a Nord, abbiamo una situazione cuànë/kiànë, uàsënë/iàsënë, cuàmpë/kiàmpë.
Per quanto riguarda gli esiti della e e della i accentate, la situazione è piuttosto complessa, ma non dissimile dagli altri dialetti dell’area: e, i, u lunghe latine conservano generalmente il suono intatto (léna, réna, fìnë/fìna, vìnë, vìtë, nìdë, lùcë, ùva, crùdë); per il resto c’è da notare una consistente presenza di metafonesi che, al solito, marca la differenza singolare/plurale (mésë/mìscë, pìrë/péra, dèntë/diéntë, pèdë/piédë), ovvero maschile/femminile (chìnë/chiéna).
(1) Il passaggio dalla a alla e è un fenomeno frequente in molti dialetti italiani: è particolarmente riconoscibile nel versante adriatico, dall’Emilia-Romagna alla Puglia, dove si presenta intensissimo, ed è chiamato dai linguisti “palatalizzazione adriatica”.
(2) Il dialetto di San Donato V.C. è molto documentato (Inchiesta AIS 1924, punto 701 e, recentissimo, il lavoro di Daniela Farina, Il dialetto di San Donato in Val Comino, pubblicato nel 2001; a quest’ ultimo, che ho consultato ampiamente, anche per le numerose affinità tra le parlate dei due paesi, rimando il lettore che volesse approfondire con una trattazione analitica e specialistica dell’argomento.
2.2 Le consonanti
Il sistema consonantico del dialetto settefratese è complessivamente coerente con gli esiti prevalenti nell’area centro-meridionale d’Italia, in particolare nel Lazio meridionale, nell’area campana e in quella abruzzese-molisana. Perciò mi limito a segnalare solo le caratteristiche più importanti. Si rileva nel centro una tendenza diffusa a raddoppiare la pronunzia delle consonanti in corpo di parola (es. màcchëna, contro màchëna della campagna e di Pietrafitta).
Esiti principali
b: iniziale e intervocalica si presenta come v (vócca, varìlë, vàrva, vàva ) o come bb, con pronuncia intensa (bbiéglië, bbuónë, sàbbëtë, sùbbëtë), talora per ipercorrettismo (bbàligia) o per influenza dell’ italiano comune (bbàrba invece del più arcaico vàrva);
c: generalmente davanti a i e e si palatalizza e si pronunzia quasi sc ( es. vuócë, pócë);
d: non presenta particolarità notevoli: la tendenza a trasformarsi in r in posizione intervocalica, frequente nel meridione e caratteristica del sandonatese, è comunque abbastaza presente: “tè ra” da “tè da”, rëciémbrë da dëciémbrë ecc.
fi, fl: l’esito abituale è sc (sciùmë, sciuórë, scënnàtë, sciónna, rësciatà);
g: iniziale ha un comportamento molto vario: di solito si presenta come i (iàtta, iërànë, iënèstra) o u/v (vuóllë), ma abbiamo anche gg (ggiòstra) in parole evidentemente entrate nell’uso più recentemente e/o influenzate dalla forma dell’italiano comune; ovvero perde sonorità (kaglìna) se seguita da vocale velare; in posizione intermedia tende a mutare in v (fràvëla); gn: si presenta prevalentemente come n, più propriamente in, con palatalizzazione conservata o meno da i (ainùccë, léna);
l: iniziale quasi sempre si conserva inalterata (lìma, lénga), ma palatalizza se seguita da i/u (gliùna, gliunëdì, glìva); nell’intervocalica si presenta, non regolarmente, l’alteranza con r (pìrë , carëcàra ); lc, ls: la l si muta in v (càvëcë, fàvësë) o cade (pócë); ld, lt: almeno 3 esiti: l si presenta come vë (savëtà), si raddoppia con assimilazione della d (càllë), diventa r (cuërtiéglië); ll: intervocalica normalmente palatalizza in gl (capìglië, cavàglië, tuóglië);
mb: si presenta come m o mm (mëglìccuërë, mmëttìglië) per assimilazione;
nd: dà nn (cannéla, mùnnë, mënnézza) per assimilazione, come in tutta l’area meridionale fino a Roma, (è stata ipotizzata una persistenza osco-sabellica); sporadicamente il nesso nd è conservato (quand’arriva?); nt: la t si conserva , ma tende decisamente verso la d, sonorizzandosi (quanda ggèntë!); ng: normalmente si presenta come gn (chiégnë per piangere, màgna per mangia, ógna per unghia, ógnë per unge, mógnë per mungere; pl (it. pi): si presenta come ch (chiòvë, chianétta, chìnë, chiùmmë);
qu: la consonante labiovelare kw è tendenzialmente stabile (quàttrë, quarànta) talvolta si presenta con perdita dell’elemento labiale (ca da quia, cocùnë da qualcuno, cìnkë da quinque, càma da squama);
s: in posizione iniziale generalmente si conserva , o passa a “z”, come in italiano comune; nei gruppi consonantici st e sk, tende a schiacciarsi, dando come esito un un suono palatalizzato tipo “sc”;
t : dopo nasale si sonorizza e tende a d (vedi sopra nt);
v: iniziale solitamente si conserva (vècchia, vèspa, vèstë vìtë, ma iólëpë, che prob. è passato da golpe, e non è direttamente da vulpis); e così pure intervocalica (nèvë, nòvë, lavà), con qualche caso di caduta (iènca da iuvenca), o in espressioni come “m’uóglië” da “më vuóglië”.
Nella formazione delle parole è da segnalare la ricorrenza abbastanza frequente della metatesi, spostamento di una più lettere, come ad esempio féttëchë/fécchëtë
3. MORFOLOGIA
3.1 I nomi
Il genere dei nomi è in gran parte identico all’italiano comune; casi sporadici di cambiamento di genere (es. la fànga) saranno via via segnalati nel dizionario. E’ invece significativa la presenza del neutro per una serie di parole che designano cose non quantificabili, e sono riconoscibili per l’uso dell’articolo lë invece del glië proprio del maschile. Questo neutro particolare, esistente in molte parti dell’Italia meridionale, non ha rapporto con il neutro latino, ed è chiamato “neutro di materia” o “neo-neutro” o “neutro romanzo” (cfr. Farina, 106) (es. càcë, làttë, pànë, sàlë, vìnë, uóglië, acìtë, mèlë, sànghë). E’ invece direttamente collegato al neutro latino il plurale in –ëra (da –ora) (es. càmpëra, téttëra, chiòvëra, bócchëra, vècchiëra). Come già ricordato a proposito della fonetica delle vocali, nelle articolazioni maschile/femminile degli aggettivi e singolare/plurale degli aggettivi e dei nomi è fortemente presente il fenomeno della metafonesi (es. viécchië/vècchia, cuónë/chiénë)
3.2 I pronomi
Personali soggetto: i’, tu, ìssë/éssa, nu’, vu’, ìssë/éssë; complemento: më, të, glië/la, në, vë, glië/lë. Possessivi Glië mié, glië tié, glië sié, glië nuóstrë, glië vuóstrë, glië sié. Gli aggettivi possessivi mio (mié) e tuo (tié) sono enclitici nelle parole che indicano parentela e simili *(fìgliëmë, fràttëmë, sòrda, pàrtë, màmmëta, nònnëtë, càsta, ecc.), ma è presente, a seconda del contesto, anche il tipo la casa méa, glië fìglië mié ecc. Dimostrativi Cosa: quéstë, quéssë (equiv. a codesta cosa), quéllë; Persona: quìstë/chésta, quissë/chéssa, quìglië/chélla, al plurale chìstë/chéstë, chìssë/chéssë, chìglië/chéllë. Gli aggettivi dimostrativi sono uguali o con aferesi iniziale: stë/sta, ssë/ssa, quìglië/chélla, plurale stë, ssë, chìglië/chéllë. Da notare la presenza di tutte e tre le articolazioni proprie dell’italiano colto e del toscano parlato (questo, codesto, quello): nel passaggio del parlante dal dialetto alla lingua comune codesto si perde; analogamente accade negli avverbi di luogo. Indefiniti Coccósa, cocùnë/cocùna.
* Per questa tipologia tipicamente meridionale, vedi la cartina a pag. 12., dove è mostrata la cosiddetta “isoglossa di figliomo”.
3.3 I verbi
Qui è presentata sinteticamente la coniugazione degli ausiliari, dei servili e delle coniugazioni standard; nel dizionario si darà conto di altri casi particolari.
Essere (èssë) I’so’, tu siè, ìssë/éssa è, nu’ sémë, vu’ sétë, ìssë/éssë suó. Part. passato stàtë; cong. cond. fóssë; imperfetto: éva, ìvë, éva, avàmë, avàtë, évenë; passato remoto: fùsë , fuóstë, fó, ….fuórnë.
Stare (stà) I’ stònghë, tu stié, ìssë/éssa stà, nu’ stémë, vu’ stétë, ìssë/éssë stiévë. Part. passato stàtë; cong. cond. stèra, stéssë; ger. stènnë; imperfetto: stèva, stìvë, stéva, stavàmë, stavàtë, stévënë; pass. rem.: stìvë, stiéstë, stèttë, stèmmë, stèstë, stiérnë.
Tenere (tëné) I’ tiénghë, tu tiè, ìssë/éssa tè, nu’ tënémë, vu’ tënétë, ìssë/éssë tiévë. Part. passato tënùtë; cong. cond. tënèra, tënéssë; ger. tënènnë; imperfetto: tënéva, tenìvë, tënéva, tënavàmë, tënavàtë, tënévënë ; pass rem. : tënìvë, tëniéstë, tëné (ténnë ?), tënèmmë, tënèstë, tëniérnë. Funge normalmente da verbo ausiliare al posto di « avere » ; nell’area meridionale si alterna con « aggia », che si riscontra nella stessa Valle di Comino. E’ da rilevare che in linea di massima il verbo ausiliare per la costruzione del passato prossimo è sempre “essere”; “tenere” è utilizzato per la formazione di molte locuzioni tipiche (më tè fàmë, më tè sétë, më tè suónnë) e per le perifrasi del futuro, anche per indicare l’aspetto durativo o di necessità (tiénga ì da “tienghë a ì”, tiérna i’ da “tëniénë a i’ ”, tèra fa da “tè da fà”, téta dicë da “tënétë a dìcë”). In questo caso all’imperfetto si usa però l’ausiliare avéva ecc. e la passato remoto “uósa, uósta, òsa, òmma, òsta, uórna”, (forse contrazione di habui, habuisti ecc.?)
Potere (pëté): i’ pòzzë, tu può, ìssë/éssa pò, nu’ pëtémë, vu’ pëtétë, ìssë/éssë puóvë. Part. passato pëtùtë; cong. cond. pòzza, pëtèra, pëtéssë; imperfetto: pëtéva, pëtìvë, pëtéva, pëtavàmë, pëtavàtë, pëtévënë; pass. rem.: pëtìvë, pëtiéstë, pëté (pòsa), pëtèmmë, pëtèstë, pëtiérnë (puórna).
Volere (vëlé): i’ vuóglië, tu vuó, ìssë/éssa vò, nu’ vëlémë, vu’ vëlétë,ìssë/éssë vuóvë. Part. passato vëlùtë; cong. cond. vëlèra, vëléssë; ger. vëlènnë; imperfetto: vëléva, vëlìvë, vëléva, vëlavàmë, vëlavàtë, vëlévënë; pass. rem.: vëlìvë, vëliéstë, vëlè, vëlèmmë, vëlèstë, vëliérnë. Abituale la caduta della v iniziale nelle espressioni m’ uóglië magnié (da me vuóglië) e simili.
Dare (dà): i dònghë, tu diè, ìssë/éssa dà, nu’ démë, vu’ détë, ìssë/éssë diévë. Part. passato dàtë; cong. cond. dèra, déssë; ger. dènnë; imperfetto: déva, dìvë, déva, davàmë, davàtë, dévënë.
Fare (fà): i’ faccë, tu fié, ìssë/éssa fà, nu’ facémë, vu’ facétë, ìssë/éssë fiévë. Part. passato fàttë; cong. cond. facèra, facéssë; ger. facènnë; imperfetto: facéva, facìvë, facéva, faciavàmë, faciavàtë, facévënë; pass. rem.: facìvë, faciéstë, facé (fécë), facèmmë, facèstë, faciérnë.
Andare (i’) : i’ vàglië, tu vié, ìssë/éssa và, nu’ iémë, vu’ iétë, ìssë/éssë viévë (con alternanza dei temi vad- e ir-, mentre l’italiano comune alterna vad- e and-). Part. passato: ìtë; cong. cond. ièra, ìssë; ger. iènnë; imperfetto : ìva, ìvë, ìva, iavàmë, iavàtë, ìvënë; pass. rem.: ìvë, iéstë, ì, ièmmë, ièstë, iérnë.
Venire (vënì/mënì: l’aternanza ven/men si presenta in tutti i tempi, con variazioni a volte legate alla persona): i’ viénghë, tu viè, ìssë/éssa vè, nu’ vënìmë, vu’ vënìtë, ìsse/éssë viévë. Part. passato vënùtë/mënùtë; cong. cond. vënèra/mënèra vënìssë/mënìssë; ger. vënènnë; imperfetto: vënìva, vénivë, vënìva, vënavàmë, vënavàtë, vënìvënë; pass. rem.: venìvë, veniéstë, vénnë (vënì?), vënèmmë, venèstë, vëniérnë.
Verbi in -are (-à/-ié): Mangiare (magnié): i’ màgnë, tu miégnë, ìssë/éssa màgna, nu’ magniémë, vu’ magniétë, ìsse/éssë màgnënë. Part. passato magniétë; cong. cond. magniéssë, magnèra; ger. magnènnë; imperfetto magniéva, magnièvë, magniéva, magnavàmë, magnavàtë, magniévënë; pass. rem.:magniévë, magniéstë, magniè, magnièmmë, magnièstë, magniérnë. (notare l’alternanza metafonetica à/ié) Pisciare (pëscié) : i’ pìscë, tu pìscë, ìssë/éssa pìscia, nu’ pësciémë, vu’ pësciétë, ìssë/éssë pìscënë. Part. passato pësciétë; cong. cond. pësciéssë, pëscièra; ger. pëscènnë; imperfetto pësciéva, pësciévë, pësciéva, pësciavàmë, pësciavàtë, pësciévënë; pass. rem. pësciévë, pësciéstë, pëscié, pëscièmmë, pëscièstë, pësciérnë.
L’alternanza à/ié è correlata dalla presenza della vocale palatale i. In assenza (es. abbëttà, abbëlà, acchiappà, aspëttà, lavà, rancëcà) si ha: aspèttë, aspiéttë, aspètta, aspëttàme, aspëttàte, aspéttënë; pp. aspettàtë ecc.) con conservazione della a del tema. (lavàmë contro magniémë)
Verbi in ere (-eve) Bere (vévë/bbévë): i’ bévë, tu bìvë, ìssë/éssa bévë, nu’ bëvémë, vu’ bëvétë, ìssë/éssë bìvënë. Part. passato vìvëtë/bìvëtë, più rec. bëvùtë; cong. cond. bëvéssë; ger. bëvènnë; imperfetto bëvéva, bëvìvë, bëvéva, bëvavàme, bëvavàtë, bëvévënë; pass. rem. bëvìvë, bëviéstë, bëvé, bëvèmmë, bëvèstë, bëviérnë. Per questo verbo si registra nei parlanti un’oscillazione fra la regolare v (cfr. fonetica, consonante b) e la tendenza a utilizzare la bb, come accade in bbàrba nei confronti del più arcaico ma praticamente desueto vàrva. Per quanto riguarda il part. pass. la forma appropriata vìvëtë tende a essere soppiantata da bëvùtë, analogamente a quanto si verifica con chiuóvëtë/chiëvùtë, presumibilmente per influenza dell’italiano comune.
Verbi in ire (-ì) Partire (partì): i’ pàrtë, tu piértë, ìssë/éssa pàrtë, nu’ partìmë, vu’ partìtë, ìssë/éssë piértënë (alternanza metafonetica à/ié). Part. passato partùtë/rec. partìtë; cong. cond. partìssë, partèra ; ger. partènnë; imperfetto partìva, partìvë, partìva, partavàmë, partavàtë, partivënë; pass. rem. partìvë, partiéstë, partì, partèmmë, partèstë, partiérnë. Per quanto riguarda partùtë/partìtë vedi quanto detto sopra per chiuóvëtë e vìvëtë. 3.4 Articoli, congiunzioni, avverbi
Gli articoli determinativi sono glië/la sing., glië/lë plur., lë per i neutri di materia tipo lë pànë (vedi quanto detto per il genere dei nomi); quelli indeterminativi në/na. Preposizioni congiunzioni e avverbi non presentano particolari casistiche morfologiche. Rimandando al dizionario per la trattazione caso per caso delle particolarità fonetiche e lessicali, segnalo alcuni casi più caratteristici, come ad esempio la congiunzione ca da quia, con caduta della labiale (vedi in fonetica-consonanti quanto detto per qu/kw). Fra gli avverbi di tempo è opportuno notare maddëmànë e masséra (stamane, stasera), uónnë iànnë iënòttë (quest’anno, l’anno scorso, la scorsa notte), iëtèrza (l’altro ieri, da die tertia) pëscrié (dopodomani, da postcras, mentre domani è presente come addëmànë), pëscrìglië (il giorno dopo dopodomani), céttë (presto), ndànnë (un tempo). Per gli avverbi di luogo, analogamente ai pronomi dimostrativi, è da segnalare la presenza delle tre articolazioni proprie dell’italiano colto e del toscano parlato (iécchë, iéssë, lòchë per qui costì, lì): anche in questo caso nel passaggio all’italiano comune si perde la nozione del “vicino a chi ascolta”.
4. Riferimenti
In questo contesto non ho ritenuto opportuno indicare una bibliografia vera e propria. Segnalo alcuni testi di riferimento, che ho utilizzato per il lavoro, e che formano un possibile percorso per un primo approfondimento dell’argomento.
- I dialetti italiani: storia struttura uso, a cura di Manlio Cortellazzo et al. Torino, Utet, 2002. - Grassi-Sobrero-Telmon, Introduzione alla dialettologia italiana. Roma-Bari, Laterza, 2003.
- Farina, Il dialetto di San Donato in Val Comino. Formia, 2001. - Giammarco, Abruzzo. Pisa, Pacini, 1979 - Merlo, Fonologia del dialetto di Sora. Pisa, Mariotti, 1920. -Tamburrini, A. , Le origini del dialetto atinate. Cassino, Ciolfi, 2008.
- Battisti-Anselmi, Dizionario etimologico italiano. Firenze, Barbera, 1975. - Cortellazzo-Marcato, Dizionario etimologico dei dialetti italiani. Torino, Utet, 2005. - Giammarco, Dizionario abruzzese e molisano. Roma, Edizioni dell’ateneo, 1968-1990. 6 vol.
DIZIONARIO
Avvertenze
Per una serie di ragioni che ho cercato di spiegare più dettagliatamente nella parte generale (Premessa, punto 1.2, pag. 5) non ho adottato una trascrizione fonetica scientifica, ma ho cercato di mantenere le parole leggibili e vicine il più possibile all’italiano comune.
Ho usato soltanto questi accorgimenti, ritenendoli veramente inevitabili e - considerata la crescente diffusione del computer- nello stesso tempo abbastanza facilmente praticabili con la tastiera standard italiana (maggiori difficoltà si hanno ovviamente con la tastiera inglese, per la quale sono necessarie alcune impostazioni attraverso il set esteso dei caratteri ASCII):
1) La “e” semivocale non accentata, che si pronuncia molto debolmente, è trascritta ë; in qualche caso, in cui è al limite fra la scomparsa e una pronunzia debolissima, è segnalata fra parentesi (ë). Nella prima edizione del dizionario, pensando alla maggiore facilità di uso della videoscrittura col computer, avevo utilizzato la e in corsivo. Ma la notazione della e debole, indipensabile nel dizionario per maggiore chiarezza, a mio parere dovrebbe però essere omessa nel caso di scrittura di testi in dialetto, poiché la regola che tutte le e non accentate sono deboli, ovvero si pronunciamo “alla francese”, non conosce praticamente eccezioni. In base a questa considerazione ho accolto volentieri il consiglio dell’amico Domenico Vitti, perché ho verificato che la notazione ë , ampliamente usata dai linguisti, fa risultare anche più leggibile l’insieme della parola. 2) L’accento della sillabe toniche è sempre segnalato; nel caso della “e” e della “o” l’accento grave (è, ò) corrisponde a una pronuncia aperta (it. prète, vècchio, còrpo, mòrto), l’accento acuto (é, ó ) corrisponde a una prononcia chiusa (it. méssa, crésta, bótte, nóce) ; la segnalazione dell’accento, per il suo carattere discriminante, a mio parere resta obbligatoria anche quando si scrivono testi in dialetto. 3) Nelle parole che cominciano per “z” ho specificato se si tratta di una z dolce o sonora. 4) Non ho neppure segnalato con k per “c “ velare davanti a vocale palatale (e,i), come normalmente si usa nelle trascrizioni dialettali, anche in assenza di trascrizione fonetica scientifica: perciò si troverà “chésta”, “chélla”, “chiézza”, “chianétta” e non “ késta, kélla, kiézza, kianétta, ecc.” ecc. Anche questo “addomesticamento” delle regole mira a mantenere una grafia il più vicina possibile a quella dell’italiano comune, dove il k non è utilizzato e, quando necessario, è espresso con la grafia ch. 5) Ho notato che talvolta scrivendo in dialetto alcuni utilizzano q al posto di c, o viceversa: considearndo le regole della fonetica italiana direi che questa pratica è sconsigliabile e fuorviante (ad esempio quóne per cuóne o anche cuànde per quànde) e che la pratica migliore consiste nel tenersi il più possibile vicini alla grafia dell’italiano comune. 6) Alcune parole segnalatemi da una sola fonte, su cui non ho una sufficiente sicurezza della grafia o del suono, sono state lasciate in colore rosso. I lettori sanno che sono particolarmente soggette ad errori e che per esse sono ancor più gradite conferme o correzioni.
A
abbafàtë, agg. (afoso) da bafa, var. reg. di afa
abballà, v. (ballare)
abbàllë, avv. (giù , anche la parte alta del paese) da a valle; a capabbàllë: all’ingiù v.a. adàvëtë
abbambà, v. (riempire di botte) da avvampare in Abruzzo attestato con il sign. di “bruciacchiato”
abbastà, v. (bastare) ant. avàsta
abbatiéglië, m. (scapolare) immagine prev. della Madonna del Carmine avvolta in una benda e portata appesa al collo
abbëcënié, v. (avvicinare)
abbëié, v. (avviare) imp. abbìa
abb(ë)iëruótë, agg. (non maturo) si dice di frutta non maturata ma non più acerba, es. tipico i fichi; da abburare=subire il primo effetto del fuoco, bruciacchiarsi? o legato ad abiurare = rinnegare?
abbëlà, v. (seppellire) dal lat tardo “bolus” , cumulo di terra, oppure (Merlo, Sora) da ad-velare, coprire (ma contra: i’ abbólë, non abbélë); v.a. sbëlà, scoprire, svelare locuz. abbëlà glië fuóchë
abbëndà, v. rifl. (gonfiarsi, riempirsi d’aria) loc.uzione: la vàcca s’è abbëndàta
abbëscuó, v. (guadagnare, prenderle) equivalente a buscare
abbëtà, v. (avvolgere)
abbëtëcà, v., (cadere, rotolando) in abruzz. e molis. Attestato per “mettere la legna verde a seccare vicino al forno”.
abbëttà, v. (riempire di cibo) prev. riflessivo da: botto “rospo” v. vuóttë o da botte, riempirsi come un rospo, o come una botte
abbëvërà, v. (abbeverare)
abbëvëratùrë, m. (abbeveratoio)
abbrëciuó, v. (bruciare)
abbrëvëgnié, v. rifl. (vergognarsi) v.a. brëvógna, brëvëgnùsë
abbrìlë, m. (aprile)
abbuótë, m. (involtino di budella di agnello con ripieno di interiora); molto utilizzato il dim. abbëtìcchië
accappà, v. (coprire) da cappa
acchiappà, v. (acchiappare, prendere) imp: acchiéppa
accëmmuó, v. (pencolare, accasciarsi, assopirsi)
accìdë, v. (uccidere) p.p. accìsë; loc. puózz’èssë accìsë, u chë sci ‘ccìsë
acciócca, cong. (acciocché, affinché)
accòrgë, v. rifl. (accorgersi) v.a. addënuó
accuëcchié, v. (accoppiare)
accuëncié, v. (aggiustare) v.a. raccuëncié
accuëscì, avv. (così)
acìtë, s.n. (aceto) utilizza l’articolo lë (neutro di materia), al pari di pànë, uóglië, mèlë, càcë, ecc. acquaròla, f. liquido sieroso nel quale è immerso il feto prima della nascita, liquido amniotico; si rifersice soprattutto ad animali
acquaviènte, s.m (pioggia con vento)
acquórë, s. m. (rugiada) anche acqua raccolta nell’incavo di un masso
acquóta, f. (vino annacquato)
adàvëtë, avv. (su, anche la parte alta del paese) da: ad altum v.a. àvëtë e abbàllë
addëcrié, v. rifl. (appagarsi, godersela) p.p. addëcriétë
addëmànë, avv. (domani)
addëmmannà, v. (domandare)
addënuó, v.rifl. (accorgersi) s'addùna, si accorge, s’è addënuótë, si è accorto; dal lat. med. addonare (da ad donare), attestato in Iacopo da Lentini, analogo alla variante addare/addarsi (da ad-dare), attestato nella lingua letteraria da Iacopone a Bacchelli.
addó, avv. (dove) da “a dove”; d’addó: da dove
addërà, v. (odorare, ma anche profumare)
addórë, m. (odore, profumo) addëviéglië , avv. (in nessun posto preciso) da: ad ubi velles, dove vuoi, dove ti pare; dialogo tipico con gioco di parole: domanda: addó vié ?; risposta : addëviéglië
ainùccë, m. (agnello) dim . di *àine
airèstë, m. (agresto, uva selvatica)
alà, v. (respirare)
allëttà, v. (1.richiamare, attrarre) (2. mettere a letto per una malattia, di solito rifl.)
ammarrà, v. (socchiudere) es. la pòrta, la fënèstra
ammazzatóra, f. (mattatoio)
ammëccìglië, m. sorta di “mappatella” annodata e legata alla cinta per portare un piccolo pasto; cfr. lat. amicio, avvolgere, coprire, rifl. mettersi addosso; in qulche dialetto mer. ammucciare è nascondere, quindi “nascondiglio”
ammëntà, v. (inventare)
ammëtié, v. (invitare)
amméttë, v. rifl. (chiamarsi) riferito al cognome locuz. cómmë t’ammìttë?
ammëzzuó, v. rifl. (coprirsi) si dice ad esempio delle pecore che si riparano dal caldo coprendosi l’una con l’altra; da ammucciare eq. a nascondere, coprire, in pugliese anche a accovacciarsi?
ammìtë, s.m (invito)
annaccuó, v. (innaffiare, lett. annacquare)
ancìnë, m. (uncino) pron. sonorizzata, come di norma: angìnë
andëvënié, v. (indovinare) ma è segnalato anche addëvënié
ànnë, m. (anno) loc.: gli’annë passàtë (l’anno scorso); a n’avëtr’annë (l’anno prossimo); plur. iénnë, es. tënéva quarant’iénnë v.a. uónnë (quest’anno) e iànnë (l’anno scorso)
annëtiéglië, m. (pianerottolo) dim. da àndito, corridoio, o comunque ambiente secondario di passaggio; v. a. iénnëtë
annùdë/annùtë, m. (nodo) dentale con pron. intermedia fra t e d
appaglié, v. (foraggiare gli animali, provvederli di paglia)
apparà, v. (pareggiare)
appëccié, v. (accendere, ma anche “prendere per mano”) imp.: appìccia, p.p. appëcciétë
appènnë, v. (appendere) p.p. appìsë
appënnëcà, v. rifl. (fare un pisolino) dal lat. parlato pendiculare, pendere avanti e indietro
appëntà, v. (appuntare) abbottonare, ma anche fare uno spuntino loc. appëntà glië stòmmëchë
appëttàta, f. (salita ripida)
appëzzëtuó, v. (fare la punta) es. al lapis
appriéssë, avv. (dopo, più tardi)
apprìma, avv. (prima) apuó, avv. (poi)
àra, f. (aia) frequente nella toponomastica: es. l’ara zënìttë, l’ara ‘glië pùzzë
aratòrië, m. (confusione, rumore, vocio) da “oratorio”, luogo per l’assistenza dei fanciulli, e dei loro giochi chiassosi (Cortellazzo-Marcato); ovvero da oratorio in senso musicale, a più voci?
ardìca, f. (ortica)
arpè, arpèjë , m. (falco) evid. etimo greco, difficile stabilire se antico o bizantino; in area merid. anche arpa e arpone per aquila
arraié, v. (arrabbiare)
arramìtë, agg. o part.passato (ossidato) propr. “che sa di rame”
arrancëchì, v. rifl. (irrancidirsi) p.p. arrancëchìtë
àrrë, avv. (avanti) usato per sollecitare l’asino ad andare avanti
arrëbbà, v. (rubare)
arrètë, avv. (dietro)
arrëvié, v. (arrivare)
arrëzzié, v. (drizzare, alzare) rifl. alzarsi dal letto ( es. më sò arrëzziétë céttë)
assëcuó, v. (asciugare) pp assùttë
vedi ancha: uóssënë
assógna, f. (sugna)
astórë , m. (astore, rapace simile al falco)
attëntà, v. (toccare, tastare, palpare)
attëruó, v. (otturare)
attëzzié, v. (attizzare) loc. attìzza glië fuóchë
attórnë, avv. (intorno)
attëppuó, v. usato nel senso scherzoso e/o volgare di infilare ben bene qualcosa nel culo;es. qué cë tiénga fa’? attuppatìglië, sott. ‘n cùrë in area molis. e abruzz. sta per rincalzare la terra attorno alle piante (cfr. toppa)
aùstë, m. (agosto) segnalato anche avùstë
àvëtë, agg. (alto) f. àvëta, pl. m. iévëtë
avëzà, v. (alzare)
azzëcchié, v. (indovinare)
babbaluóttë, m. (ragnatela) nel senso di ragnatela, con diverse varianti, è conosciuto in area calabrese, abruzzese e molisana; ma sta anche per upupa, o altri animali; l’etimo sembra collegato a babbo, nel senso di sciocco e uluccus, allocco; segnalato anche “macialóttë ”
balëcónë, s.m. (balcone)
bàra, f. piedistallo con stanghe sporgenti ai due capi, su cui si portano le statue in processione; cfr. it. Barella; dal lat vara, pali di sostegno di un’impalcatura, da cui “varare”.
bàrba, f. (barba) pronuncia bbàrba ; v.a. vàrva, più arcaico
bëcchiérë, m. (bicchiere) plur. neutro lë bëcchéra
bëciuórdë, agg. (bugiardo) f. bëciuórda la pronunzia di ci è palatalizzata, e suona quasi sc, regolarmente, come in vuócë, pócë, ecc.
bëttìglia, f. (bottiglia)
bévë, v. (bere) pronuncia bb; v.a. anche vévë più arcaico part. passato: vìvëtë, bìvëtë, ma anche più rec. bëvùtë
bìa, f. (alla lett. =via) usato nelle locuzioni “e bbìa” = soltanto, oppure causale pë bbìa, per via che; nel senso di strada reg. via
biéffë, m. (baffi)
biéglië, agg. (bello) f. bèlla
biùnzë, m. (bigongio, recipiente di latta)
brëvëgnùsë, agg. (lett. “vergognoso”), ma si dice propriamente di persona che prova facilmente vergogna f. brëvegnósa
brëvógna, f. (vergogna)
bùchë, m. (buco) pl. n. lë bócchëra v.a. cavùtë C
ca, cong. (1) perché (causale); 2) che (es. sò dìttë ca…) da “quia” con caduta della labiale nella labiovelare qu(kw), cfr. càma da “(s)quama
cacarèlla, f. (cacarella, diarrea)
caccavàlla, f. (coccola, gallozzola) in molti dialetti mer. sta per il frutto della rosa di macchia; in molis. anche susina selvatica
cacciùnë, m. (cucciolo di cane)
càcë, s.n. (cacio, formaggio) l’art. è lë (del neutro di materia); la a accentata non ha prodotto l’atteso “cuócë”(come cuónë da cànë) forse anche per necessità di disambiguazione con i derivati di cuocere
caciónë, m. (calzone) sorta di raviolone, o calzone, ripieno di ricotta o di formaggio, abituale nel periodo pasquale; plur. caciùnë
cafè, s.m (caffè)
cafónë, m. (contadino, lavoratore della terra) pl. cafùnë sociolog. contrapposto a “sëgnùrë”; per estensione, come di consueto anche per altri termini simili ,nel linguaggio cittadino diventa sinonimo di “persona non educata”
caglìna, f. (gallina)
cagliëniérë, m. (pollaio)
cagliëppàta, f. (palla di neve) da cagliuóppë, fatta con le due mani analogamente al latticinio
cagliuóppë, m. latticinio formato con le due mani, fatto col caglio, analogamente alla palla di neve
calà, v. (calare, scendere)
calata, f. (discesa) in senso fisico andare giù, peggiorare; la “calata” per antonomasia è la funzione del 14 agosto, con il canto dei vespri
calënié, v. (vederci) collegato all’ abbruzz. calìna, foschia afosa, deriva dal travedere nella foschia
càllë, agg. e s.n. (caldo) f. càlla nel sost. art. lë (neutro di materia)
càma, f. (pula del grano) da “(sq)uama”, con caduta della labiale nella labiovelare qu (kw); cfr. ca da quia
càmb(ë)ra, f. (camera)
camënié, v. (camminare) imper. camìna
camìnë, m. (camino)
càna, f. (cagna) v.a. cuónë e cacciùnë
canàlë, m. (tegola) pl. caniélë
canalónë, agg. (goloso, avido)
canàssa, f. (ganascia, mascella)
cancaùlë, (cavalcioni) loc. a cancaùlë
canciéglië, m. (cancello)
canèstra, f. (canestra)
cangiérrë, m. (oggetto malridotto) dall’arabo hangar, pugnale storto
caniéstrë, m. (canestro) dim. canëstriéglië
cannardìzia, f. (golosità)
cannarìnë, m. (gola) in gola: n’gànna da canna
cannéla, f. (candela)
canzónë, f. (canzone) plur. canzùnë
capà, v. (scegliere)
capëcuóglië, m. (capocollo) vertebra cervicale
capézza, f. (cavezza)
capìglië, m. (capello) plur. capìglië
cappiéglië, m. (cappello) pl. anche n. lë cappéllëra
carastùsë, agg. (caro) f. carastósa; riferito a persona, es. negoziante che pratica prezzi alti
cardìglië, m. (cardellino)
carësiéglië, m. (salvadanaio) dim. di carùso, ragazzo, per la somiglianza del “carosello” di creta simile a una testa di ragazzo.
carëcàra, f. (fornace da calce) it. calcara, dal lat. calcaria
carëié, v. (caricare) anche carecà ? carësà, v. (rapare, tosare)
carvónë, m. (carbone) plur. carvùnë
casalié, v. (girare per case) ad es. mangiando, bevendo o chiacchierando gerundio casaliénnë attestato abruzz. casarià, tosc. casarèa e calabr. casiàre
casàrcia, f. (catasta, bica di covoni nell’aia)
càssa, f. (cassa, bara)
castëmié, v. (bestemmiare)
castìma, f. (bestemmia)
càttëra, imprec. (caspita!) è un n. plur.
cavàglië, m. (cavallo) pl. càviéglië; v.a. monta càviéglië
càvëcë, s.m (calcio). e f. (calce), plur. m. chiévëcë
càvëza, f. (calza)
cavëzùnë, m. (calzoni)
cavùtë, m. (buco) cfr cavità, cavo
cazzaròla, f. (casseruola, pentola)
cëcàgna, f. (sonnolenza)
cécë, m. (cece) plur. cìcë
cëfëlié, v. (fischiare) in abruzz. cëfiéglië è il fischietto di coccio o di latta per i ragazzi
cëfëlìglië, (leggerone, sciocco)
cëgliùccë, m. (uccello) formato col diminutivo di ciéglie, attestato ma più raro
cëlà, v. rifl. (nascondere) es. nella liccia
cëmbrónë, m. (tonto, impacciato) detto di persona che si muove in modo goffo e impacciato
cëmëntà, v. (prendere in giro, “sfidare”) da cimentare, cimento, equiv. a “sfida”
cëmiéntë, m. (1. cemento 2. presa in giro) nel senso 1. da cimento, v. cëmëntà
cénnërë, f. (cenere) con consueto radd. della cons. in parola sdrucciola, cfr. macchëna, miéddëchë, pèccuëra, ecc.
cëntrìnë, m. (cinturino)
cëràcia, f. (ciliegia) dal lat. cerasa
cërbétta, f. (gelato) da sorbetto
cëròggënë, m. (candela) cerogeno, propriamente “candela di stearina”
cërviéglië, m. (cervello) plur. n. cërvèlla
cërvónë, m. (cervone, serpente cervone) grosso serpente favoloso, cornuto
cèsa, f. appezzamento di terreno, anche strage dal lat. caedere, tagliare
céttë, avv. (presto, di buonora) dal lat. tardo citto, var. di cito, presto
cëvétta, f. (civetta)
chëcómbrë, m. (cocomero) plur. chëcùmbrë
chélla, agg. e pr. (quella) lontano da chi parla e da chi ascolta m. quìglië
chëlùmbrë, m. (fichi fioroni) prob. dal greco korymbos, fiore
chëmënzà, v. (cominciare)
chëmmannà, v. (comandare)
chëmmàrë, f. (comare)
chëmmàttë, v. (discutere, litigare) da combatttere
chëmpàrë, m. (compare)
chënfiéttë, m. (confetto)
chërpìttë, m. (corpetto, panciotto)
chéssa, pr. (codesta) vicino a chi ascolta m. quìssë agg. ssa
chésta, pr. (questa) vicino a chi parla m. quìstë agg. sta
chianétta, f. (terrazza) rif. al terreno terrazzato con contenimento di muri a secco (macèrë)
chiavìnë, m. (chiave) tipica dei portoni di casa, di ferro, grande dim. di chiave
chiégnë, v. (piangere)
chiénë , avv. (piano) anche agg. f. plur. di chiéna, piene
chiévë, f. (chiave)
chiëvëlëchié, v. (piovigginare) chiëvëlëchéia, pioviggina
chiëvëzzëchié, v. (piovigginare)
chiézza, f. (piazza)
chiòvë, v. (piovere) part. pass. chiuóvëtë, ma nei parlanti più giovani è presente chiëvùtë
chìrba, f. ghirba, pelle: stesso uso dell’italiano comune, fare la ghirba, ammazzare
chiùmmë, s.n. (piombo) art. lë del neutro di materia
ciammarùca, f. (chiocciola) ciammàruca spegliuóta: lumaca da ciamma (gamba) e ruca (verme)
ciamòia, f. (mocciosa?)
ciamùrrë, m. (raffreddore) it. cimurro
cianca, f. (gamba)
cianchétta, f. (sgambetto) anche il gioco della “cianchétta” (mondo, campana)
ciarfùsë, agg. (moccioso) f. ciarfósa v.a. ciuórfë
ciavàtta, f. (ciabatta)
ciavëlié, v. (chiacchierare, ciacolare) ciavola è presente in area meridionale anche col sign. di “gazza”, da cui “persona ciarliera”
ciavèlla, f. (varechina) dal francese eau de javel Javel è un sobborgo di Parigi in cui si usava una sostanza simile per sbiancare i panni; con questo nome fu chiamata dall’inventore della formula standard
cìca, f. letter. “un nonnulla”, ma si usa per “una certa quantità”, es. có cìca dë…
ciérvë, agg. (acerbo) f. cèrva
ciévësë, m. (gelsi)
cignàlë, m. (cinghiale)
cìncë, m. (cencio) come espressione aggettivale equivale a modesto, povero: ne cìncë dë marìtë, na céncia dë càsa
cìnchë, agg. num. (cinque)
cinna/ciùnna, f. (vagina)
cìttrë, m. (bambino piccolo) da cittolo, dim. di citto, ragazzo, zitello f. cìttra; attestato dal XVI secolo e presente in senese, cortonese, aretino
ciùccë, m. (ciuco, asino) metaforicamente sta per scadente a scuola, come asino
ciuócchë, m. (ciocco) dim. ciuëccuëtìglië
ciuóppë, agg. (zoppo) f. ciòppa
ciuórfë, m. moccio v.a. ciarfùsë attestato in area campana e abruzz. anche come fràffë o chiàrfe, prob. legato a fraffécchie ( froge, naso)
có, agg. (qualche) co ccósa qualcosa, cocùne qualcuno
cócë, v. (cucire)
còcë, v. (cuocere) anche scottare: es. commë còcë!
cócchia, f. (coppia)
cóla, f. (coda)
cólazinzëra, f. (coditremola) detta anche “ballerina”, nome di varie specie di uccelli della famiglia dei motacillidi
cómmë, avv. e cong. (come)
cónë, avv. un po’ (ne ccónë), v.a. gnìttë da “(po)co, cfr. sandonatese ne ccó; ma è ipotizzata anche rid. di vëccónë (boccone)
còppa, f. (coppa) 1. misura di capacità e superficie, equivalente a 1/4 di tomolo 2. salume
còrë, m. (cuore)
còrva, f. caiscuna delle parti in legno del basto
cósa, f. (cosa)
còssa, f. (coscia) ma anche gamba
còtta, f. (sopravveste, usata in ambito ecclesiastico)
cóttëca, f. (cotica, cotenna)
cràpa, f. (capra)
cràpìttë, m. (capretto)
créscë, v. (crescere) pp crësciùtë
crëttàtë, agg. (lesionato)
crìa, avv. (niente) da cria “briciola di pane” (v.a. niéntë)
cr(ë)iatùra, f. (creatura, bambino piccolo)
crìcca, f. (cresta)
crìscesànte, locuz. (lett. cresci santo) augurio per lo starnuto di un bambino
crócë, f. (croce) pl. crùcë locuz. crùcë a iëmmèllë (guai in abbondanza)
cucurùzzë, m. mucchietto di pietre accatastate; in area molisana è anche un dolce pasquale di pasta con le uova sopra
cuëcchiéra, f. (cucchiaio)
cuëggìnë, m. (cugino) anche fruótë cuëggìnë
cuëgliënà, v. (coglionare, imbrogliare)
cuëgliónë, m. (coglione)
cuëlënnétta, f. (comodino) dim. di colonna
cuëlèra, s.m (colera)
cuëlónna, f. (colonna)
cuëncuëlìna, f. (concolina)
cuëniéta, f. (cognata)
cuëniétë, m. (cognato)
cuënnëmiéntë, m. (condimento)
cuënnì, v. (condire)
cuënsèrva, f. (conserva) soprattutto di pomodoro; ma anche serbatoio di liquidi, part. acqua: glië tùbbë dëlla c.
cuëntiéntë, agg. (contento) f. cuëntènta
cuërëcà, v. (coricare) rifl. coricarsi
cuërtiéglië, m. (coltello) pl. n. cuërtèllëra
cuëzzéttë, m. (nuca) legato a coccia, cozza nel senso di testa
cùnnëla, f. (culla)
cuóccë, m. (coccio) plur. n. còccëra
cuócchië, m. (cappio)
cuóglië, m. (collo) l’espressione ‘n cuóglië equivale a “addosso”, cfr. tosc. “in collo”
cuómpë, m. (campo) plur. lë càmpëra (n.) , glië chiémpë (m.) cuónë, m. (cane)
cuónë pëzzìglië, s.m (puzzola, faina?)
cuópë, m. (capo) gen. non usato per “testa”, ma presente in toponimi: es. “glië cuópë dëlla Madònna, Capëdàcqua”; avv: da càpë , a capabbàllë
cùrë, m. (culo)
cùrtë, agg. (corto) ma anche “basso di statura” f. córta, dim. scherzoso cuërtìcchië D
da càpë, loc avv. (da capo, dall’inizio)
da pèdë, loc. avv. (in fondo) presente anche da piédë
dëciémbrë (dicembre)
dëiùnë, m. (digiuno) usato nella locuzione “stà addëiùnë”
dëmànë, f. (mattina) loc. avv.: la mattina presto “la dëmànë céttë”; questa mattina “maddëmànë”
dëménnëca (domenica)
dëmònnië, m. (demonio)
dèntë, m. (dente) plur. diéntë
dënuócchië, m. (ginocchio) plur. n. dënòcchiëra
dërëpuó, v. (dirupare, precipitare)
dëtónë, m. (ditone) E
ècchë (ecco) vicino a chi parla loc. ècchëglië: eccolo/eccoli qua
èglië, loc. lontano da chi parla e da chi ascolta eccolo/eccoli là
ènnëra, f. (edera)
èrva, f. (erba) èrva cìta (erba dal sapore acidulo) èrva mèrëca (erba medica)
éssa , pr. (ella, lei) 3° pers. sing. f.
èssë (ecco) vicino a chi ascolta loc. èssëglië: eccolo/eccoli costì
(ë)ttàlë, m. (ottavario) spec. riferito all’Ottavario di Canneto, 29 agosto
F
faciuórë, m. (fagiolo)
fàia, f. (faggiola, frutto e seme del faggio)
falàsca, f. (falasco)
falëchënéttë, m. (falco comune)
fàmë, f. (fame) loc. më tè fàmë
faméglia, n. plur. (i bambini, la prole)
fànga, f. (fango)
farëcìglië, m. (pioggia ghiacciata, granelli acquosi di grandine)
fastìma, avv. (forse) da “fa stima”, fai conto che usato anche po’ rèssë, può essere
fatìa, f. (fatica, lavoro)
fat(ë)ié, v. (faticare, lavorare)
fàvëcë, f. (falce)
favëcié, v. (falciare)
favëciéta, f. (selciato) notare per San Donato AIS/1924 savëciàta, Farina 1998 favëciàta
fàvësë, agg. (falso)
fëbbràrë (febbraio)
fécchëtë, m. (fegato) segn. féttëchë con metatesi
fëcchié, v. (ficcare)
fëglié, v. (figliare, partorire) fèlla, f. (fetta) dal lat. ofella, boccone (Merlo, Sora)
fémmëna, f. (femmina, donna) plur. fémmënë “bèlla fé” è l’appellativo per rivolgersi una donna sconosciuta di ceto popolare, altrimenti “signó”, ovvero “a sëgnërìa”, usato anche per i maschi.
fërracùte/fërracuta, s.mf/?. (flauto) sorta di flauto costruito dai bambini con le canne; figurato da ferracuto “lancia, spiedo”
féssa, f. (vagina) v.a. pësciòtta locuz.offensiva: la f. de màmmëta
fëssóra, f. (padella)
fëtà, v. (fare l’uovo)
féttëchë, m. (fegato) con metatesi, v.a.. fécchëtë
fìccuëra, s.f. (fico) plur. neutro invariato, le f.
fiérrë, s.n. (ferro) art. lë (neutro di materia)
fìglia, s.f. (figlia) plur. lë fìglië possessivo: fìgliëma, fìgliëta
fìglië, s.m (figlio) plur. glië fìglië possessivo: fìgliëmë, fìgliëtë
fìlë, m. (filo) filë 'lla schìna , colonna vertebrale (es. “s’è rùttë glië fìlë 'lla schìna”) anche “fìrë”
fìvëcë, f. (felce)
in questo caso la ë non è praticamente pronunciata, come in frùta, ma AIS/1924 registra per San Donato “fëlìma”, cf. Farina, 64.
fòrë, avv. (fuori) detto anche della campagna: es. è ùnë dë fòrë
fóttë, v. (fottere, copulare) anche imbrogliare
fràccëdë, agg. (fradicio)
fraciéglië, m. (scempio) enfat. sfraciéglië
fraié (abortire) fraiéta, della mucca che ha abortito dal lat. fragare, rompere
franìlë, m. (terreno da ferrana) terreno adibito alla coltivazione della ferrana o farragine (mistura di granaglie utilizzate come biada); residuale in toponimi
frascélla, f. (faggio isolato o gruppo di carpini con rami bassi)
frastiérë, agg. e s. (forestiero)
fràtta, f. (fratta, siepe)
fràvëla, f. (fragola)
frëfëliétë, m. (filo di ferro) lett. ferro filato tra f e r la e praticamente è scomparsa, v. flima
frégna, f. (vagina)
frëscétta, f. (pinza) strumento a forma di tenaglia che si adatta alle narici (froge) dei buoi per controllarne il movimento; da frogetta
frëttiéta, sf (frittata)
con metatesi di r, come capra/crapa
frìddë, agg. e s.n. (freddo) f. frédda, nel sost. art. lë (neutro di materia) loc. më tè frìddë
frìschë, agg. (fresco) f. frésca sost. con art. lë, neutro di materia; locuzione: allë frìschë
fròcë, sost. pl. f. (narici) da frogia
frónna, f. (foglia, fronda) plur. Frùnnë
fruóstëchë, agg. (forastico, poco socievole) es. iuottë f.
fruótë, m. (fratello) pl. friétë (ma Sëttëfràtë) possessivo fràttëmë, fràttëtë; fruótë cuëggìnë: cugino
frùsta lòchë, frùsta lò intimazione per scacciare il gatto cfr. pàssë lòchë, pàssë lò, per il cane
frùta, f. (ferita) da feruta, presente in italiano arcaico (es. Dante, Inferno, I, 108)
fuóchë, m. 1. faggio plur. fiéche 2. fuoco esito fonetico identico di due lemmi diversi, a causa della dittongazione e metafonesi della a accentata di fagus, come cuómpë e cuónë
fùrnë, m. (forno)
fùtë, agg. (folto)
G
gëlòrma, f. (?) gioco di gruppo, prob. da Gerolamo o Gerolama: è il nome del personaggio principale del gioco
gërëcónë, m. (cerchio) pl. gërëcùnë tipicamente designa il cerchio di botte da far scorrere con un fil di ferro
ghiénghë, agg. (bianco) f. ghiénga
giaggianìsë, m. gente straniera che parla una lingua incomprensibile, diffuso anche nel significato di piccolo commerciante prov. dal Nord (etimologia è data da “vigevanesi”)
giarrétta, f. (piccola giara) piccolo recipiente per acqua e vino
giónë, agg. (giovane) plur. giùnë
giùgnë (giugno)
glië, art. (il, lo, gli)
gliéfa , f. (terra, fango)
gliénna, f. (ghianda)
gliëvièstrë, m. (olivastro)
gliótta, f. (goccia)
glióttë, v. (inghiottire)
gliùcë , agg. (lucido, spendente) es. come un diamante
gliùma, f. (lume)
a olio o petrolio
gliùmë, m. (lume) loc. loc. tra gliùmë i gliùstrë, sul far della sera
gliùna, f. (luna)
gliuómbrë, m. (gomitolo) in it. antic è attestato ghiomo; in napoletano gliuommero sta per gomitolo e metaf. intrigo; è anche un componimento in dialetto nap. dal lat. glomus-eris, da cui glomerare = avvolgere in gomitolo
gliunëdì, s.m. (lunedi)
gliùstrë, agg. (lustro?) locuz. tra gliùmë i gliùstrë
gnaccà, v. (sporcare) es. dita “gnaccate” di inchiostro vedi nap. inguacchiare, prob. legato a inguazzo, guazzo
gniéccuërë, m. fune per legare la legna e le balle in genere al basto da jaculum; attestato in umbro e abruzzese come gnéccurë, jàcculu, gnàcculu;
gniëttëchì, v. (spaventare fortemente) annientare?
gnìttë, s.m.. (un pezzetto, un po’) v.a. cónë (ne ccónë), da ineptum nel senso di cosa da nulla (cfr. inezia), oppure da “ognìttë” (un’unghia piccola), në ëgnìttë
gnórë, agg. (signore) come appellativo è anche un indicatore spia di distinzione sociale, usato davanti al nome proprio dei “signori”
gnòstrë, s.n. (inchiostro) utilizza l’articolo lë (neutro di materia), al pari di pànë, uóglië, mèlë, càcë, ecc
gòbba, f. (gobba) più arcaico iòbba
grégna, f. (covone) vedi anche iërégna I
i’, 1. pr. pers (io) 2. inf. pres. (ire)
iàmma pëlósa, f. (millepiedi) iàmma da ganbia, cfr. ciamma-ruca composto con ciamma, gamba; interessante tosc. e nord ital. gatte pelose per processionaria (dove gatta potrebbe essere uan deformazione?)
iammiérë, m. (gambiere?) sorta di gruccia di legno leggermente ricurva per tenere appese le due parti del maiale spaccato scherz. Detto anche di una donna con le gambe storte : “ còssë a iammiérë”
iànnë, avv. (l’anno scorso) cfr. tosc. pop. “anno”
iàtta, f. (gatta)
iattùccë, m. (gattino)
iéccë, m. (sedano)
iécchë, avv. (qui)
i(ë)cèrta, f. (lucertola)
iéglië, m. (aglio)
iëcuó, v. (giocare) a carte e simili, per altri usi v. pazzié
iëlà, v. (gelare) più recente: gëlà
iëmènta, f. (giumenta)
iëmmèlla, f. (giumèlla) dal lat. gemella (manus): cavità formata dalle mani accostate insieme con le dita riunite e leggermente incurvate verso l’alto; quindi la quantità contenuta nella
cavità: una g. di farina, di riso ecc.; ant. misura per i cereali; loc. avv. “a giumelle”, in abbondanza, come nella loc. settefr. crùcë a iëmmèllë.
iènca, f. (giovenca, vitella) dim. iëncarèlla
iënèstra, f. (ginestra)
iénëtë, m. (andito) dim. anëtiéglië
iënnàrë, m. (gennaio)
iénnërë, m. (genero)
i(ë)nòttë, avv. (la notte scorsa)
iërànë, s.n. (grano) utilizza l’articolo le (neutro di materia), al pari di pànë uóglië, mèlë, càcë, ecc.
iërànnëra, f. (grandine)
iëràscia, f. (abbondanza) di cibo , soprattutto da: grascia, grassa
iérë, avv. (ieri)
iërégna, f. (covone) v. a. grègna dal lat. gremia, n. plur. di gremium, ciò che sta in una bracciata
iërìglië, m. (grillo)
iërnàta, f. (giornata) anche in senso lavorativo, andare a giornata
iëróttë, f. (grotta) plur. iërùttë
iëruódë, m. (gradino) dal lat. gradus i(ë)ruóssë, agg. (grosso, grande) f. iëròssa.
iéssë, avv. (costì)
iéstrëchë, m. (pavimento) dal lat. tardo astracum, pavimento o terrazzo fatto di cocci
iëstèrza, avv. (il giorno prima dell’altro ieri)
iëtèrza, avv. (l’altro ieri) dal lat. die tertia
iëttié, v. (gettare) v. anche sciënnà
india criéta (grande abbondanza e ricchezza) lett. India creata
iòbbë, agg. (gobbo) attestato in soprannome, fuochista per antonomasia; per l’aggettivo ord. ha prevalso la forma con g
iòbba, f. (gobba) più recente gòbba
iòcca, f. (chioccia)
iólëpa, f. (volpe) prob. attraverso l’arc. golpe locuz. së stà a spësà la iólëpa, quando piove e c’è il sole contemporaneamente . Il modo di dire origina dalla credenza universalmente diffusa che quando si verifica questa circostanza accade qualcosa di misterioso o di favoloso, si sposa il lupo o la volpe ecc.
iuórnë, m. (giorno)
iuóttë, m. (gatto)
iùstë , agg. (giusto) iùvë, m. (giogo)
L
lampónë, m. (lampone) plur. lampùnë
làppësë, m. (lapis, matita)
lardiéglië, m. (lardello) pezzetto di lardo scaldato e fatto gocciolare per insaporire la carne sullo spiedo;
làrië, agg. (largo)
lassà, v. (lasciare)
lë, art. (le, lo/il) f. plur. e neutro di materia
lëbbrétta, f. (libretto, quaderno) spec. rif. A quello della pensione, a quello per seganre la spesa al negozio ecc.
lécca-mùssë, m. schiaffo violento e ben assestato
léccëna, f. (prugna) pl. lë léccëna dal lat. tardo aulicinus, ch designava l’albero e il frutto; diffuso con varianti dalle Marche alla Calabria
lécchë, m. (lecco, boccino) da lecco (simile a leccornia) nel senso estensivo di “allettamento”, ovvero il ciottolo o il segnale a cui ci si deve avvicinare il più possibile
lëcìgnëla, f. (lucignola) nome popolare per orbettino; è considerata cieca; il nome deriva dalla santa accecata (Lucia)
lëggiérë, agg. (leggero) al f. sost. “La leggèra”, sorta di congrega scherzosa adusa ad allegre bevute
lëscìvia, f. (liscivia) potassa ottenuta con la cenere
léna, f. (legna) pl. lë léna, n.
lèbbrë, m. (lepre) il genere oscilla fra m. e f.
lénga, f. (lingua) malalénga, detto di persona maldicente
lènza, f. (lenza) figur. sta per mascalzone, mascalzoncello, o ragazzo monello
lèstë, avv. (presto, subito)
lèstra, f. giaciglio di animali, in senso figurato anche un covo sporco; dal lat. extera, cose che stanno fuori della casa
liémpia, f. (lamia, soffitto)
liéttë, m. (letto) pl. lièttë; arc. n. lë lèttëra
lìbbrë, s.m (libro) pl. n. lë lébbra
lìccia, f. (nascondino) prob. collegato a lizza, recinto di una gara, competizione, torneo, o la gara stessa; ma cfr. nap. licciare e tosc. allicciare, correre. Il giocatore scelto a sorte (con la conta) per “cecarsi” nella “bara” deve avvistare (nella liccia detta “milanese” è sufficiente vedere e dire “tana per…) ovvero inseguire e toccare gli altri che si nascondono allo scopo di arrivare non visti e toccare con la mano la “bara”; l’ultimo non trovato può fare “tana libera tutti”;
liéggë, agg. (leggero)
lòchë, avv. là, lì ; lòchë abbàllë: laggiù
lucëcappèlla, f. (lucciola)
lùglië (luglio)
lùpë, m. (lupo) pl. n. lë lóppëra
lùpë cërvìnë, m. (lince) in dialetti vicini detta anche lùpe cërviérë o cërviérë
M
maccarónë, m. (maccherone, pasta) plur. maccarùnë maccarùnë chë ll'òva : pasta all'uovo
màcchëna, s.f. (macchina) in part. sta per automobile
macèra, f. (muro a secco)
maciéglië, m. (macelleria)
magliuócchë, m. (grumo) peso sullo stomaco, grumo di formaggio; abruzz. –molis. magliuccà: appallottolare
magnatóra, f. (mangiatoia)
magnatòria, f. (banchetto, in pratica un mangia mangia)
maië 1. avv. (mai) 2. mese (maggio)
maiésë, f. (maggese)
malamèntë, avv. (male) uso anche aggettivale: quìglië è malamèntë
malëpiérte, f. pl. (lett. cattive vicende) pl. di malapàrtë, è usato ache per indicare una presentazione maldicente o calunniosa ad es. di una ragazza in procinto di sposarsi
maluócchië, m. (malocchio)
màmma, f. (madre)
mammàcia, f. (bambagia, ovatta)
mammàra, f. (levatrice, osterica) nei dial. merid. prevalentemente “mammana”
mammòccë, m. (bambino) f. mammòccia, pl. mammuóccë dim. mammëcciéglië, mammëccèlla da: bamboccio
màndra, f. (mandria)
mànë, f. (mano) mànë mànca, sinistra
mannà, v. (mandare) p.p. mannàtë
mantégna/mandégna, f. (barile) grosso barile da vino cfr. pugliese mandégnë, vaso; etimol. Incerta, forse lat. manutenere (Giammarco)
mantìlë, m. (tovaglia da tavola)
mappàta, f. (tovagliolo raccolto e annodato contenente cibo) dim. mappatèlla da mappa, vedi sotto mappina
mappìna, f. (straccio) presente in tutto l’areale meridionale dall’Abruzzo alla Sicilia nel senso di cencio, tovagliolo, canovaccio; dim. da mappa, attestato in ital. antico e letterario, deriv.dal lat. mappa, tovagliolo
màrë, m. (mare) v. a. muórë
marëtié, v. (maritare) rifl. sposarsi; p.p. marëtiétë (fémmëna marëtiéta, donna sposata)
martëdì (martedì)
martiéglië, m. (martello) màrzë, m. (marzo)
mascëcà, v. (masticare) anche ammascëcà
mascuërë, m. (maschio)
màssa, f. (madia)
masséra, avv. (stasera)
mastrùccë, m. (intrigo, intrallazzo) propr. trappola
matèria, f. (pus)
matëriélë, agg. (materiale, rozzo, zotico)
matónë, m. (mattone) pl. matùnë
matrëcùta, agg. (massiccia, robusta)
matrégna, f. (matrigna)
mazzuócchë, m. (stelo di granturco)
mbrèchë, f. (more) cëràcia mbrèchë: amarene
mbrëiéchë, agg. (ubriaco)
mbrèlla, f. (ombrello)
mbrènna, f. (merenda)
mbrëssiónë, f. (ribrezzo, spavento) impressione
mbrì, v. (morire) riflessivo: më mòrë, s’è mmuórtë
mbriacà, v. (ubriacare) p.p. mbriacàtë
mëccëcà, v. (mordere, morsicare) io mordo: móccëchë
mëdëcà, v. (medicare) mëglìca, f. (mollica)
mëglìccuërë, m. (ombelico)
mèlë, s.n. (miele) l’art. è lë (del neutro di materia)
mëmiéntë, m. (momento)
mënaciéglië, m. (spiritello)
mëlënàrë, m. (molinaro, mugnaio)
mënèstra, f. (minestra)
mënì, v. (venire) alterna con vënì, v. pag. 22
mënnézza, f. (immondizia)
mëntàgna, f. (montagna)
mëntànë, m. (frantoio) poco convincente la derivazione proposta dal paese di Mentana; più prob. legato ai mucchi di olive
mëntónë, m. (mucchio, grossa quantità) pronuncia con t sonorizzata, al solito
mëntràsta, f. (menta selvatica) mentastro o mentastra, con metatesi
mënùtë, m . (minuto) anche p. p. di mënì/vënì
mënùzzë, m. (pezzetti) spec. carne sminuzzata nella lavorazione del maiale
mërcuëlìcchië gioco simile alla cavallina, un ragazzo sta curvo e gli altri lo scavalcano spiccando un salto da una linea designata
mërtalétta, f. (mortaretto) spec. nei fuochi d’artificio
mërtélla, f. (mortella) talora indica siepi di bosso
mëschìttë, m. (moscerino)
mësëruó, v. (misurare)
mëstàccë, m. plur. (baffi) mustacci
méta, f. (mucchio)
mètë, v. (mietere)
mëtëtórë, m. (mietitore)
mëtónë, m. (mucchio) di sterco, di paglia ecc.; accresc. di méta
méttë, v. (mettere) p.p. mìssë locuz. méttë ‘nfaccia: intestare
mëtuó, v. rifl. (cambiarsi) di abito
mëtuónda, f. (mutande)
miéddëchë, m. (medico)
miézë, agg. (mezzo) f. mèza miézë-iuórnë: mezzogiono
mìlë, m. (melo) il frutto: la méla, f.; pl. lë méla mìlë stërpàre: melo selvatico
minò appellativo con cui ci si rivolge a persona che porta lo stesso nome ; è attestato con varianti, in marchigiano, laziale, toscano meridionale
mmèrza, f. (“inversa”) luogo dove non batte il sole v.a. rëvèrza
mmëttìglië, m. (imbuto) mmìcca locuz. stà alla mmìcca: essere senza soldi cfr. molis. mmìccë, stoppino della candela?
mmòstrë, m. (mostro)
mmuósch(ë)rë, m. (montone) prob. da mascolo, raro e arcaico per “maschio”
mmuóstë, m. (basto)
mó, avv. (adesso) mmó mmó: or ora, poco fa; chë da mó: da molto tempo dal lat: modo
móglië, f. (moglie) poss. mógliëma, mógliëta pl. lë mùglië
mógnë, v. (mungere)
mòla, f. (mulino)
mònnëca, f. (monaca, suora)
montacaviéglië (montacavalli) gioco a squadre, una fa da cavallo, e una deve montarci con un salto: l’abilità consiste nel restare in sella
mórra, f. 1. gioco 2. gruppo, branco (di animali, di ragazzi ecc.)
mpagliéta, f. (impagliata) bottiglia di vetro impagliata ( l 1,5)
mpènnë, v. (impiccare) p.p. mpìse loc. chë scì mpìsë; ovviamente la pronunzia è sonorizzata e tende a mbènnë, mbìsë
mpaurì, v. (impaurire) anche riflessivo ind. më mpaùrë, së mpaùra; pass. rem. së mpaurì; p.p. mpavërìtë
mpëcciùsë, agg. (intricato, difficile da risolvere, lett. “impiccioso”)
mpìccë, m. (impiccio, situazione difficile)
mùccëchë, m. (morso) cfr. il v. mëccëcà
muluó, v. (lamentarsi) delle mucche
muórë, m. (mare) solo nella locuz. në m. = una grande quantità da: mare, dittongo con metafonesi regolare; màrë in senso letterale, senza dittongo e metafonesi, evidentemente è più letterario o recente
muórtë, sost., agg. (morto) al f. mòrta anche part. pass di “mbrì” (s’è mmuórtë)
mùrë, m. (muro) al pl. mùra, con la stesso significato dell’italiano comune: le mura della città; cfr. “sóttë lë mùra”
mùscë, agg. (moscio)
mùssë, m. (muso) dim. mëssìttë: musetto
N
nascónnë, v. (nascondere)
nascuënnarèlla, f. (nascondino) v. a. lìccia
natà, v. (nuotare)
nazzëcà, v. (cullare) dal lat. naticare, freq. di natare, ondeggiare
ncacchié, v. (incappiare, allacciare strettamente) p.p. e aggettivo nchacchiétë
ncanatónë, m. (rimprovero severo, partaccia) da: incanarsi, nel senso di ostinarsi cfr. abruzz. ncanàtë, stornelli amebei a dispetto che si cantavano durante la mietitura (incanata è attestato in D’Annunzio e Bacchelli)
ncànna/nganna) in gola locuz. rëmanì ‘ncanna
ncantà, v. rifl (stare piegato da un lato) da incantare, fermare con un incanto?
ncëcalì, v. rifl.( perdere parzialmente l’acutezza visiva)
nchëmënzà, v. (incominciare) v.a. chëmënzà
nchiànatë, agg. (pianeggiante)
ncrëcchié, v. rifl.(lett. drizzare la cresta) specif. avere un’erezione
ncuartà, v. rifl. (ingrossare)
ncuëntrà, v. (incontrare)
ncuëruótë, agg. (acculato, aggrucciato)
ncuóglië, avv. (addosso) lett. in collo
ndànnë, avv. (allora, un tempo) in italiano antico sono presenti “tanno” e “tando” nel senso di allora, formato con tantum in analogia con quando; (ma cfr. anche francese d’antan “di tanto tempo fa”)
në, art. indet. (uno)
nëcélla, f. (nocciola)
nëciémbrë (dicembre) var. dëciémbrë
négghia, f. (nebbia)
nëpótë, m. e f. (nipote) pl. nëpùtë
nësciùnë, pr. e agg. (nessuno) f. nësciùna
nèvë, f. (neve)
nëviémbrë (novembre)
nëvìnë, f. plur. (semi di zucca, di cocomero) da lat. reg. novina, dim. di novia: sposina, piccola sposa; cfr. lë spósë (abruzz. anche spusìnë), semi di granturco abbrustoliti; in ital. antico anche novizia sta per sposa novella per altri deformaz. da “lupino” o da nugae, piccole cose
nfiérnë, m. (inferno)
nfónnë, v. (bagnare) part.pass.e agg. nfùssë, f. nfóssa dal lat: infundere
ngènnë , v. (far male, dolere) da incendere nel senso di bruciare o meno prob. da ingemere, raro rafforz. di gemere? ambedue gli etimi sono di origine colta
ngìma, avv. (sopra) da “in cima” con sonorizzazione della c, come di regola: quindi è un suono fra c e g
ngrëfiétë, agg. (arruffato) es. rif. a capelli
nguastì, v. rifl. (arrabbiarsi) p.p. nguastìtë da “guasto” nel senso di arrabbiato, idrofobo
ngùrdë, agg. (ingordo, goloso) f. ngórda
nguërdënìzia, f. ingordigia (di gola)
nièntë, avv. (niente) v.a. crìa
niérvë, m. (nervo) pl. n. lë nèrva loc. tè lë nërva: è nervoso
nniénzë, avv. (davanti)
nnòcca, f. (fiocco)
no, avv. (no) enfatico: nónë cfr scì, scìnë
nócë, f. (noce) frutto e albero plur. nùcë nócë vòmmëca: ailanto ailanthus altissima Swingli
nònnë, m. (nonno) v.a. tatónë
nòra, f. (nuora) nòrëma, (e lievissima, quasi nòrma): mia nuora
npaurì, v. (impaurire, spaventare) anche rifll: n(ë)të npaurì
ntìgna voce verbale per locuz: n’cë ntìgna cria: non c’entra niente da intingere? di norma in italiano intignarsi è attestato per intestardisrsi
ntìcchia, f. (pezzettino) da lenticchia
ntrà, v. (entrare) alterna con conservazione della e nella coniugazione
ntràmiéntë, avv. (nel frattempo)
ntrasàttë, avv. (all’improvviso=
ntrëchié, v. (intrigare?)
ntrëntà, v. (sfiorare)
da “troppa”, ceppaia, cespuglio; simile a incespicare, sbattere il piede contro un ostacolo propr. una zolla di terra
ntrìglië, m. (mesenterio) membrana che tiene sospeso l’intestino tenue; dal lat. interilia formato come extilia (stigliola)
nuósë, m. (naso)
nzègna, avv. (insieme)
nzìnë, loc. avv. (in grembo) lett. in seno O
ógna, f. (unghia)
ógnë, v. (ungere)
òppëra, s. n. pl. operai agricoli a giornata
ottóbbrë (ottobre) P
pàcca, f. (parte) soprattutto di cose rotonde o tondeggianti, es. di frutta
pàcchë, m. (pacco)
pàcchënë, m. (schiaffone) nap. pacchero, anche pasta di grosso formato, schiaffoni
paésë, m. (paese) pl. glië paìsë
paesànë, agg. (compaesano)
pagnòtta, f. (pagnotta)
pal(ë)mèlla, f. (farfalla)
pallatàna, f. (parietaria)
pammadòrë, s,f. pl. (pomodori)
panàrë, m. (pala per infornare il pane)
panëmmóllë, m. (zuppa di pane e verdure)
panógnë, v. (ungere) p.p. e agg. panùntë, f. panónta sporco, unto di grasso prob. da pane ugnere/unto (di olio)
pànza, f. (pancia)
panzanèlla, f. (panzanella)
papàgnë, m. (manrovescio)
pappàccë, m. (tacchino)
parà, v. (parare, mettersi davanti)
paré, v. (parere, sembrare)
parzënàlë, m. (mezzadro) dal lat. partionarius
pàscë, v. (pascolare)
passëlò /passëlòchë espr. per scacciare il cane; cfr. frustalò per il gatto
pastónë, m. (pastone) per gli animali
patìna, f. (madrina)
patìnë, m. (padrino)
patratèrnë, m. (Padretereno)
pazziarélla, f. (giocattolo)
pazzié, v. (giocare, scherzare)
pëccërìglië, agg. (piccolo) f. pëccërélla
pl. pëcciùnë
pèccuëra, f. (pecora) al pl. neutro esito invariato
pëcìnë, m. (pulcino) pl. invariato
pl. piédë
pëglìccë, m (setaccio) strumento per vagliare il grano, orig. di pelle
pëgniéta, f. (pignatta)
pëlènta, f. (polenta)
pëlì, v. (pulire) p.p. e agg. pëlìtë , f. pëlìta
pëllàrë, m. (pellaio) uso anche dipreg.: es. vëstìtë commë a në p. , trasandato
pëllàstrë, m. (pollastro, pollo)
pëllëtrónë, agg. (poltrone)
pëllìtrë, m. (puledro)
pëncëcà, v. (pungere)
pëncëcónë, m. (pungiglione)
pënzà, v. (pensare)
pëparuólë, m. (peperone) al pl. invariato
përchìttë, m. (maialino) dim. di puórchë p. dë Sant’Antògnë, it. porcellino di terra o di Sant’Antonio: onisco, piccolo crostaceo terrestre
dal lat. percoca
përdësìnë, m. (prezzemolo) da petrosino, con metatesi r-t, (cfr, capra/cràpa)
përnùccë, m. (picciuolo) segnalato da Merlo per Sora
përriézzë, m. (porracci o porrazzi) asfodelus ramosus toponimo “ròse ‘glie përriézzë”
pèrsëca, f. (pèsca)
da Portogallo, nome più raro e arc. con cui il frutto è conosciuto
përtùsë, m. (pertugio, buco) v.a. cavùtë
pësà, v. 1. posare: i’ pósë, tu pùsë ecc. 2. pesare: i’ pésë, tu pìsë ecc.
péscë, s.m (pesce) pl. pìscë
pëscié, v. (pisciare)
pëscìttë, m. (pesciolino) ma anche pene di bimbo
pësciòtta, f. (vagina) fa’ a pësciòtta: copulare v.a. féssa
pëscóla, f. (pozzanghera)
pëscrié , avv. (dopodomani) lat. post-cras
pëscrìgna/prëscrìgna, avv. (il giorno successivo a dopo-domani)
pësënèttë, m. (lett. piccola pentola) ma imbroglio, fregatura prob. da punzonetto, fr. pousonet; il termine è larg. attestato nei dialetti meridionali e sta propriamente per un piccolo recipiente da misura su cui è presente una punzonatura. Nel napoletano esiste “cacapusenette” per bellimbusto. In Molise è presente nel senso affine di “dare una fregarura”: fa’ në p.
pësiéglië, m. (pisello)
pëtatóra, f. (roncola)
pëtèca , f. (bottega, negozio)
pëtecàrë, m. (negoziante)
pëttënà, v. (pettinare)
pèttënë, s.m (pettine)
pèzza, f. (pezza) 1.pezzo di stoffa; 2. dollaro, nel linguaggio dei vecchi emigrati, da una moneta napoletana preunitaria; 3. fig. “essere una pezza”, un briccone: è stata anche ipotizzata una deriv. da Michele Pezza, fra’ Diavolo, ma contra: con questa accez. il termine è presente in italiano fin dall’Aretino.
pëzzëlèntë, agg. (puzzolente) anche cattivo
pëzzèntë, m. 1. pezzente, mendicante 2. recipiente dove si conferisce l’olio dopo la scelta del frantoiano
pëzzùchë, m. (piolo)
pëzzùtë, agg. (aguzzo) v.a. appëzzëtuó topon. Còllë Pëzzùtë
pëzzuó, v. (puzzare)
piattìnë, m. (piattino) dim di piéttë (2)
pìcca, f. (picca) gioco a squadre, con rincorsa e “bara”
piéttë, m. 1. petto 2. piatto (nel senso di stoviglia)
piézzë, m. (pezzo)
pìgna, f. (pigna, grappolo)
pìppa, f. pipa e atto di masturbazione maschile pìrë, m. (pelo e pero) il frutto la péra, al pl. lë péra
pìsë, m. peso
pìvëzë, agg. (all’insù) es. cùrë pivësë cfr. abruzz. pìuzë e luc. pìvëze, legnetto appuntito
pìvëtë, m. (peto, scorreggia)
pìzza , f. (pizza, torta) pìzza salàta, pìzza dócë
póo/ póccë comando per fermare gli equini
pl. pùcë
pónta, f. (punta) locuz. n’pónta a: in cima
pósa, f. (fondo) es. dell’olio, del vino
prëggëssiónë, f. (processione) pl. prëggëssiùnë
pl. priétë e priéiëtë
prème, v. (premere)
préna, agg. f. (pregna, incinta)
pl. n. prësóttëra
prié, v. (pregare) locuz.. tiéra prié Ddìë ca…
priévëla, f. (pergola)
pròspërë, m. (fiammifero) da una nota fabbrica di fiammiferi , Prosperi di Putignano?
prù (per ciascuno) es. na caramèlla prù
pruóppria, avv. (proprio) alla ppruóppria: veramente
pruótë, m. (prato)
puó, avv. (poi)
puóchë, agg. e avv. (poco) f. pòca
puónnë, m. (panno) pl. piénnë
puórë, m. (paio)
pl. puórcë dim. përchìtte përchìtte dë Sand’Antògnë: onisco, piccolo crostaceo
puóssë, m. (passo) pl. piéssë
pàttrëmë, mio padre; pàrtë: tuo padre v.a. tàta
pùrë, avv. (pure, anche)
pùzza, f. (puzza) anche scorreggia, v.a. pìvëtë Q
quàndë, avv. (quando) notarei nd al posto dell’atteso nn
quànta, agg. f.s e pl. (quanta e quanti)
quàscë, avv. (quasi)
quatràrë, m. (ragazzo) v.a. vagliónë
quìglië, pr. (quello) lontano da chi parla e da chi ascolta f. chélla
quìssë, pr. (codesto) vicino a chi ascolta f. chéssa
quìstë, pr. (questo) vicino a chi parla f. chésta
R
rabbëlà, v. (ricoprire) vedi: abbëlà
raccappà, v. (ricoprire) vedi: accappà
raddùcë, v. (radunare, ricondurre)
raganélla, f. (raganella) strumento musicale di legno formato da una ruota dentata fissata su un manico, dentro una cassa di legno; usata part. nella settimana santa in luogo delle campane
ràlla, f. (ralla) attrezzo per pulire il vomero; lat. ralla, legato a radere
rambrì, v. (spegnere) i’ rammòrë: io spengo, p.p. rammuórtë
ramëggiéna, f. (damigiana) var. damëggiéna
ramégna, f. (gramigna)
rannëruó, v. rifl. (rannuvolare)
raprì, v. (aprire) pres. i’ riépë p.p. rapiértë
rancëcà, v. (graffiare)
rànfa, f. ramo familiare??? it. com. ranfia=artiglio
rantìgna, f. (granturco, mais) da “grano d’india” attraverso “grandinnia”, attestato in tutto il Meridione per granturco; cfr. toscano formentone d’India
rasciatà, v. (godere) es. di una mangiata, di una situazione bella, “më sò rasciàtatë”
rassërënà, v. rifl. (rasserenare)
rasùrë, m. (rasoio)
ratìccia, f. (rete, reticolato)
ratìccuëla, f. (graticola)
rattacàcë, f. (grattugia)
rattatùglië, m. (rumore, confusione) attestato abruzz. come “grosso vortice” dal fr. ratatouille
rattëllà, v. (protestare) in modo ripetitivo e fastidioso
rattëllùsë, agg. da rattëllà
ravàra, f. (o riavàra) materie sassose e ghiaiose portate dalle acque che scendono dai monti, anche coste sassose di monti prob. voce pre-indoeuropea, analoga al veneto e friulano grava e al franc. grève attestato in molti dialetti viciniori
rëbbëbënié (?) (borbottare)
récchëna (réghëna?), f. (origano)
récchia, f. (orecchio)
rëchëmënzà, v. (ricominciare)
rëcrëié, v. (ricreare, soddisfare)
rëcuërdà, v. (ricordare)
rëfà, v. (rifare, guarire) rifl: më rëfàccë, s’è rëfàttë
rëfósa, f. (rimborso, differenza) da rifondere
rëfrìdde, m. pl. (rifreddi) vivande cotte specie in un pranzo importante e messe in serbo per essere consumate in un altro pasto; in ital. comune – e in questo senso si trova nell’Artusi- anche genericamente vivande fredde o in gelatina
règana, f. (origano)
rëiëttié, v. (vomitare) lett. rigettare v.a. vòmmëchë
rëlòggë, m. (orologio)
rëmëcënà, v. (rovistare) da rimuginare; in tosc. GR LU SI rimucinare sta per cercare ben bene, con diligenza; quindi rivoltare, rimenare; poi “pensare molto a una cosa”
rëmënì, v. (ritornare) nella coniugazione alterna con rëvënì; cfr mënì/vënì
rëmënnà,v. (sbucciare) da ri-mondare att. in ital. nel senso di sbucciare
rëmërié, v. (rimirare, guardare)
réna, f. (rena, sabbia)
rënnèlla, f. (rondinella, rondine)
rënsëccuó, v. (andare di traverso) locuz. fa’ rënsëccuó: far andar di traverso, quindi “rinfacciare”
rëntënnà, v. (rintronare) fare eco in modo fastidisoso
rëpónnë, v. (riporre, mettere a posto) rëquètë, v. var. : rëquèdë (accudire con visite) si usa ad esempio per la chiusa e per gli animali; da re-quaero, richiedere, frugare, cercare ripetutamente (nap. ant. “requedere”; Merlo, Sora, 201 : requète, anche nel senso di rovistare: rëquètë bbónë)
rëscëcà, v. (rosicare, rosicchiare)
rësciatà, v. (respirare)
rësëchìnë, agg. (avaro, taccagno) prob. da rosicare
rësëlà, v. (var. rëzëlà, con z sorda) rigovernare, fare le faccende domestiche
rëstóccia, f. (stoppia)
rëtòglië, v. (riprendere) es. un oggetto, un dono fatto p.p. rëtuótë es. prov. “chi dà e puó rëtòglië… ecc.”
rëtràttë, m. (ritratto, fotografia)
rëvëglié, v. (svegliare) rifl.: svegliarsi cfr. arrëzzié
rëvèrza (alla), locuz. avv. (a rovescio) dal lat. revertere, rovesciare, rigirare
rëvócca, f. (lett. = ri-bocca) usato nella loc. “fa’ la r.”, ovvero fare il verso, prendere in giro imitando i modi del beffeggiato
rigólizia /ricólizia, f. (liquirizia)
róbba, f. (roba)
rrènnë, v. (rendere) p.p. rrënnùtë
rrëscì, v. (apparire, lett. ri-uscire) es. detto di spiriti
rùncë, m. (roncola, pennato) c sonorizzato, fra c e g, come al solito
ruómë, m. (ramo) plur. n. ràmmëra
rùscë, agg. (rosso) f. róscia
rùzzë, s.m? (solletico) nella locuz. fa’ rùzzë cfr. ruzza per capriccio, voglia e tosc. ruzzare = scherzare S
saccòccia, f. (tasca) da sacco, ampiamente attestato nei dialetti e nella lingua scritta e parlata
saétta, f. (saetta, fulmine)
sàglië, v. (salire) pp sàvëtë
sagliuócchë, m. (bastone nodoso, randello con capocchia) da *saliocco, bastone di salice? in abruzz, anche f.: sagliòcca
sàgna, f. (sagna) sorta di tagliatelle fatte in casa con acqua e farina, senza uova; piatto emblematico “sagnë e faciuórë”
sàlë, s.n. (sale) art. lë, del neutro di materia
sammùchë, m. (sambuco)
sànë, agg. (intero) anche raddoppiato, es. “sana sana”
sànghë, s.n. (sangue) art. lë, del neutro di materia
sanguétta, f. (sanguisuga)
sanguìccë, m. (sandwich, panino) americanismo importato dagli emigrati
santacchiérë, agg. (bigotto)
saràca, f. (salacca, sardina affumicata)
sarapùglië, m. (santoreggia) satureja montana da serpillum
sarcënàlë, s.m (serpente) anche sarcënàvëlë in abruzz. è attestato per “uomo molto alto”
sarëcà, v. (percuotere, riempire di botte) prob. figurato da colpire con una saraca;
sarëménta, n. plur. (sarmenti)
sargiòtta, f. (sottana, camice) da sargia, panno di lana da cortinaggi
satùllë, agg. (sazio, satollo)
savëcìccia, f. (salsiccia)
sbarëcà, v. (valicare) sparire dietro il valico
sbëlà, v. (disseppellire, scoprire)
sbëlacchié, v. (svolazzare) tipico delle galline
sbërruó, v. (sburrare, eiaculare) si dice anche del latte quando esce dal pentolino in cui bolle
sbòta, f. (svolta, curva) topon. la sbòta
sbrafàntë, agg. (gradasso, millantatore) cfr sardo sbrafanterìa e catalano brafada, con lo stesso significato
sbavëttì, v. (impaurire)
sbrëvëgnié, v. (svergognare)
sbùrrë, n. (sperma) n. di materia?
scacchié, v. (allargare, divaricare) còssë scacchiétë: gambe larghe, storte
scaccié, v. (scacciare) uscire dal nido, quando gli uccelli sono in grado di volare scagnié, v. (scambiare)
scallà, v. (scaldare)
scapëcuëllà, v. (scapicollare)
scapëzzà, v. (togliere la capezza) passare il limite
scardëllà, v. (imbrogliare) propr. contestare e tentare di sottrarsi alle regole di un gioco; agg. scardiéglië, scardëllónë, detto di chi abitualmente “scardèlla” nel gioco; collegato con scarto o scartello? In abruzz. (Canistro) è attestato il nomignolo Scardèlla come attaccabrighe, da s. come arnese per cardare la lana
scarëpuó, v. rifl. (dirupare) p.p. e agg. scarëpuótë nota la variante sgarrupato, entrato anche nella lingua giornalistica, ma il termine è attestato anche nella lingua scritta “Ad altare scarupato non s’accende candela” (G. Bruno)
scazzìttë, m. (cappellino) la scazzétta in nap. propr. copricapo rotondo con cui si copriva la chierica; prob. da cazza, nel senso di mestolo, per la forma
scazzuóppërë, s. m. pannocchia di granturco (sgranata) cfr. nap. scazzuóppolo piccolo pesce (pagello), e quindi persona di statura bassa; salentino scarciòppula, frutto del carciofo
schëmmaròla, f. (schiumarola)
scëccuërëié, v. (nevischiare)
scëccuó, v. (fioccare, nevicare) sciòcca = nevica
scëcuërarèlla, f. (scivolo) gioco dello scivolo
scëcuëruó, v. (scivolare)
scèmë, agg. (scemo)
scëmëié, v. (dire scemenze)
scëngiétë, agg. (disordinato) detto di vestiti, di capelli da cìncë
scénna, f. (ala) da: ascella
scënnà, v. (gettare) io getto: sciónnë da fiondare
scënnëcàtë, agg e p. p. (abbacchiato, malconcio) da scénna, ala (con le ali abbassate e malconce?)
scëscélla, f. (sasso piatto, adatto al lancio)
scësciatùrë, m. (soffiatoio) preval. per il fuoco
scëscié, v. soffiare io soffio: sciósce
schëmmariéglië, m. (barattolo, mestolo) in latta
schëmmaròla, f. (schiumarola) cocchiaio forato per schiumare in cucina
schëpìne, m. (spazzino)
schiaffónë, m. (schiaffone)
schiéffë, m. (schiaffo)
schìna, f. (schiena) dal longobardo skina fìlë ‘lla schìna: colonna vertebrale
schiëppìttë, m. (fucile) dim. di schioppo
schiòvë, v. (spiovere) p.p. schiuóvëtë rec. schiëvùtë
scì, v. (uscire)
sci, avv. (sì) enfatico: scìnë; cfr. nò, nónë
scialacquò, v. (sc
sciammèrëca, f. (giacca lunga, marsina) dallo spagnolo chamberga, nap. sciammèria, sciambèrga
sciapìtë, agg. (insipido)
dal gr. skyphos, lemma abbastanza presente in varie aree del Meridione; top. la scifa dëgl’ùrzë
scìgna, f. (scimmia)
sciò verso per allontanare le galline
sciónna, f. (fionda)
sciorlà alla sciorlà: alla rinfusa, disordinatamente; in abruzz. attestato ciorla come scoiattolo, e fig. persona sciatta e inetta
sciùmë, m. (fiume)
sciuórë, m. (fiore) sciuórë miéglië , fior di maggio , cytisus laburnum
sciùscë, m. (soffio) scocciacuëgliùnë, m. (rompicoglioni, scocciatore)
scocciarécchië, m. (scocciatore)
scòla, f. (scuola)
scòlla, f. (fazzoletto, foulard del costume femminile) per coprire la scollatura
scòrza, f. (scorza, buccia)
scrìma, f. (scriminatura, riga dei capelli)
scròcca, f. (tuono)
scuërdà, v. (scordare, dimenticare) locuz: alla scuërdàta, all’improvviso
scuërtëcà, v. (scorticare)
scùcchia, f. (bazza, mento sporgente) reg. diffuso (Morante: la schucchia quasi toccava il naso)
scuëccié, v. (scocciare) aprirsi delle uova
scuërzìnë, m. (schiaffetto) dato seccamente sulla nuca
scùre, s.n. (buio) art. lë; àllë s., al buio
scuërtà, v. (finire, terminare)
sécca, f. (siccità)
sëcuëtà, v. (seguitare, proseguire) locuz. nei giochi: sëcuëtà o chëmenzà?
sëffìtta, f. (soffitto)
sèggia, f. (sedia) locuz. portare uno “a sèggia a sèggia glië pàpa”, incrociando 4 braccia
sëgnórë, m. (signore) appellativo gnórë, pl. sëgnùrë, sociolog. contrapposto a “cafùnë”, indicava possidenti o anche professionisti
sëgnërënèlla, f. (signorinella) sëgnërënèlla dë Campëtiéglië (mantide)
sëllécchia, f. (carruba) propr. baccello della carruba, dal lat. silicula, piccolo baccello (siliqua)
sëmënà, v. (seminare)
sëmèntë (sëmènta ?), f. (semente) anche sperma
sënié, v. (segnare)
sëniétë, agg. (segnato, incrinato) p.p. di sënié
sënnà, v. rifl. (sognare) es. më sò sënnàte pàrtë (a pàrtë)
sëntì, v. (sentire) i’ sèntë, tu siéntë ecc.; p.p. sëntùtë sostantivato n. l’udito
sërìnë, agg. (sereno) locuz. “va sërìnë”
sèrpë, f. (serpe, serpente)
sërrìcchië s.m. (falcetto, falce messoria) dal lat. sericula
sétë, f. (sete) locuz. më tè sétë
sëttiémbrë, m. (settembre)
sfraciéglië, m. (scempio) enfat. di fraciéglië
sfrëccëchié, v. (sfregare)
sìcchië, m. (secchio) pl. n. sécchiëra
sìnnëchë , m. (sindaco)
smëcënié, v. (rovistare) v. a. : rëmëcënà
sòccëra, f. (suocera) poss. sòccërma
sòda, f. (terreno incolto, sodaglia) terra soda
sòldë, m. (soldo)
sòrë, f. (sorella)
sórgë, m. (sorcio, topo) pl. sùrgë dim. sërgìttë
sóttë, avv. (sotto)
spànnë, v. (stendere , spandere) es. i panni
spaparanzà, v. rifl. (sdraiarsi, spaparanzarsi)
sparà, v. (sparare)
spàre, m. (sparo) partic. fuochi d’artificio
sparaggìna, f. (asparagina)
sparagnié, v. (risparmiare)
sparié, v. (spargere)
spëccié, v. (sciogliere) es. nodi, capelli il riflessivo nell’area è attest. per partorire
spëgliuó, v. (spogliare) anche scartocciare il granturco spènnë, v. (spendere)
spësà, v. rifl. (sposare) v. a. marëtié
spësàlizië, m. (sposalizio) cerimonia del matrimonio
spëzzëtuó, v. (spezzare la punta) es. del lapis
spiérchië, m. (specchio)
spiérnë, m. pl. (asparagi)
spiganàrda, f. (lavanda, spigo) dal lat. spiga nardi, spiga del nardo; col termine nardo sono chiamate varie specie di lavanda coltivata o selvatica; voce (anche con la variante “spigonardo”) attestata in Toscana, Abruzzo, Calabria
spìrrëtë, m. (spirito, fantasma) (Merlo per Sora: spìrdë)
in nota cantilena canzonatoria infantile: spùsë i spósa, riépë la càssa e mìccë (=mittëcë) co’ cósa; lë spósë: semi di granturco abbrustoliti, pop-corn; su questo v.a. nëvìne
sprëfënnà, v. (sprofondare)
sprëfùnnë, m. (burrone)
sprèmë, v. (spremere)
sprèscia, f. pressa (gioco)
sprëscié, v. (premere con sforzo) es. per evacuare
spùglië, m. cartoccio del granturco
spuórtë, m. (“sopportico”) viottolo coperto che mette in comunicazione due vie passando sotto edifici
v.a. spósa
squaccuarà, v. (rendere liquido, inconsistente)
squacquarèlla, f. (diarrea) equiv. a cacarèlla
ssë, agg. (codesto) f. ssa
ssuómë, m. (sciame)
stabbëié, v. (stabulare, concimare) far stazionare le pecore per alcune notti in un terreno per concimarlo
stë, agg. (questo) f. sta
stëccuó, v. (recidere)
stëchié, v. (sbaccellare) sgusciare legumi, ma anche sgranare granturco; in abruzz. tèca/tèchë sta per baccello dei legume
stërpónë, m. (carpine bianco) in area anche nella variante strëppónë, propriamente succhione,, quindi albero piccolo e sterile; cfr. mìlë stërpàrë, melo selvatico in abruzz. anche canérzë; in ital. comune sta per ceppo, e poi anche “bastardo”
straccà, v. (stancare)
stràcchë, agg. (stanco)
straccié, v. (strappare)
strëchié, v. (far scomparire) prob. da stregare p.p. e agg. strëchiétë
strëfëngié, v. (mettere in disordine, stropicciare con forza e sfibrare )
strëfëniè, v. (strofinare)
strëgliòlë, f pl. (stigliole) fegatelli di maiale avvolti nella loro rete
strégnë, v. (stringere) p.p.. strìttë, f. strétta; termine . attestato nel senso di “vicolo”, “viottolo”; toponom. La Strétta
strëllié, v. (strillare)
strëmiéntë, m. contratto dal lat instrumentum
strënzà, v. (rimbalzare accidentalmente)
strèvësë, agg. (strambo) dal lat. abstrusus
strëviérë, m. cattivo tempo, con vento forte e tempestoso e acqua; in abruzz. e molis. si trova per persona sciatta, per pazzia e cattivo tempo; lin nap. confusione, baldoria, rumore fuori dall’ordinario; legato al franc. ant. “estriver”, lottare?
strëzzìnë, m. (strozzino) scherz. per cravatta
strìglië, m. (stalluccio, bugicattolo) piccolo ricovero)per animali domestici, in part. maiale e galline; da exterillum (stabulum), ovvero piccola stalla ricavata all’esterno dell’abitazione freq. sotto il ballatoio
strùië, v. (struggere) consumare completamente
strùnzë, m. (stronzo)
sùbbëtë, avv. (subito) nell’espressione “muórtë dë sùbbëtë” equivale a “all’improvviso”
sùlë, agg. e avv. (solo) locuz. a sùlë a sùlë, specie in minacce di ritorsioni e vendette (së të tròvë a …)
suóccërë, m. (suocero)
suónnë, m. (sonno e sogno) ma anche “tempia” loc. me tè suónnë
suóia, f. (foia, libidine) loc.: è ìtë ‘n suóia
surchiuó, v. (succhiare, sorbire con rumore)
sùrëchë, m. (solco) T
tabbàcchë, s.n. (tabacco) articolo lë (neutro di materia),
tàcchëra, f. (pezzo di legno) di norma lungo e secco; da tacca
taccónë, m. (pezzo di legno) si dice di persona bonacciona e ingenua, o di poca capacità
tagliafòrbëcë / tagliafròvece?, m. (forfecchia) chiamato altrove molafrovëcë, arrotafrovëcë ecc.
tamùrrë, m. (tamburo)
tar(ë)mà, v. (gelare) attestato in area abr. mol. laz. camp. settentrionale) anche nella forma darmà; dal latino trama -immagine del ghiaccio
tarëmiéglië, m. (gelo)
tasciòla, f. (tasso) animale
tàta, s.m (padre, il proprio) v.a. puótrë
tatónë, m. (nonno, il proprio) v.a. nònnë
tavëlìnë, m. (tavolo, tavolino)
tàvëra, f. (tavola)
tavòta, avv. (lett. talvolta) equivale a “speriamo che”
tëmbiégnë sorta di scolatoio per lavorare il formaggio; cfr. molisano tëmbànë ( caciera telaio di stecche per essiccare il formaggio) prob. dal lat. tympanum, che nei vari dialetti ha dato luogo a varie parole con significato diverso, da timballo a coperchio della botte, a caciera
tëmpëstàta, f. (tempesta)
tëné, v. (tenere, avere) per il suo uso anche nelle perifrasi verbali vedi parte generale, pag.21
tènnë, v. (tendere)
tërtùre, m. (pezzo di legno)
tëvuóglia, f. (tovaglia, asciugamano)
tiémpë, m. (tempo)
tianèlla, f. (tegamino) gen. di terracotta; dim. di tiànë, da teganum, casseruola
tìglië, m. (tiglio) la tèglia, tiglio grande, per antonomasia quello della “chiézza”
tìnchë, m. (tinca?) sopravv. nell’espressione tìnchë nìrë, persona di pelle scura; in napolet. tìnchë tìnchë, per vivacissimo
tìttë, m. (tetto)
tòcchë, m. (colpo, ictus) da colpire, toccare
tòglië, v. (togliere) p.p. tuótë
tòrcë, v. (torcere, piegare) p.p. tuórtë tórza, f. (fascina) in it. antico attest. tórsa come involto di sfoffa o fascio di legna; dal fr. tourse
tóscë, v. (tossire)
tóssë, f. (tosse)
trafànë, m (falso, adulatore) anche al femm. molto attestato nei dialetti meridionali, forse da l lat. volg . *trepanum, trapano, con f osca in luogo di p latina.
tragliónë, m. (treggia) attrezzo trasportato dai buoi aggiogati; in genere designa una sorta di slitta per trasporto; legato a
tramèntë, v. (guardare) imp. tëmè, tëmènta, p.p. tramëntùtë dal lat. tenere mente
tramëtuó, v. (tramutare, travasare)
trascënié, v. (trascinare)
trattórë, m. (trattore)
trattùrë, m. (tratturo, sentiero)
tratùrë, m. (cassetto) di comò, armadio, ecc. da “tiratore”, attestato in molti dialetti meridionali; cfr. “tiratoio”, presente anche nella lingua scritta (Foscolo); cfr. anche “tiretto” ; tutti da “tirare”
trëbbëlié, v. (tribolare)
trébbia, f. (trebbiatrice)
trëscà, v. (trebbiare) dal germanico thriskan: trebbiare pestando i piedi, conservato nell’abruzzese; altri significati, derivati da questo, in vari dialetti: calpestare, ballare, pigiare l’uva, guazzare nell’acqua; v. a. vëntruó
trëttëcà, v. (traballare) ipotizzata orig. da trepidus, attraverso *tretta, quindi legato a tremare
trìppa, f. (trippa)
trùdë, agg. (torbido) f. tróda
tùbbë, m. (tubo)
tùmbrë, m. (tomolo) misura e di capacità (circa 40 litri) per liquidi e granaglie, e quindi di superficie (ca 1/3 di ettaro) pl. n. tómbra
tùnnë, agg. (tondo) f. tónna
tuócchë, m (rintocco di campana) propr. del pomeriggio
tùrzë, m. (torsolo)
tùzza, f. (scontro, cozzo) forse dallo spagnolo tozar o da incrocio fra cozzare e toccare; locuz. fa a tùzza, scontrarsi
U
ùlmë, m. (olmo) mannà agli’ ùlmë: quando nel gioco il “padrone” non dà da bere
ùnë uno (numero)
uócchië, m. (occhio)
uóglië , s.n. (olio)
uóië , avv. (oggi)
uóllë , m. (gallo)
uóllëra, f. (ernia)
uónnë, avv. (quest’anno) da hoc anno
uórië, m. (orzo)
uóscë, m. (assiolo)
uóssënë, m. (asino) pl. iéssënë
uóvë, m. (uovo)
V
vaccìlë, m. (bacile, catino)
vacié, v. (baciare) v.a. vuócë
vadagnié, v (guadagnare)
vagliónë, m. (ragazzo) f. vaglióna, pl. vagliùnë (cfr. anche il diffuso nap. e campano guagliónë) v.a. quatràrë etimo incerto, forse legato al francese antico guagnere per lavorare a giornata; quindi prima garzone, servo, poi ragazzo (Cortellazzo-Marcato)
vardà, v. (guardare) anche custodire v. anche tramèntë imp. vuórda (es. ma vuórda a quìssë)
varëcà, v. picchiare con un bastone
varëlàrë, m. (barilaio) propr. telaio in legno appoggiato al muro per tenervi i barili; detto scherzosamente di S.Donato, per la posizione delle braccia della statua
varëvàglia, f. (gorgia, guanciale) anche doppio mento; da vàrva?
varìlë, m. (barile)
vàrva, f. (barba) vedi anche bàrba, più rec.
vastà, v. (guastare)
vàttë, v. (battere, picchiare)
vattëié, v. (battezzare)
vatténnë, v. (vattene) imp. usato in molte locuz., es. Ma camìna vattènnë
vattèntë, m. (battitura, botte)
vëccónë, m. (boccone)
vëlé, v. (volere) usato in tutte le locuzioni del corteggiamento dell’amoreggiamento (es. “Antògnë e Marìa së vuóvë”; “Giësèppë vò Mëchèla” ecc.)
vëllàna, f. (nocciola) da avellana
vënì, v. (venire) nella coniugaz. alterna con mënì
vénnë, v. (vendere) p.p. vënnùtë
vëntruó, v. (ventolare) lanciare in aria il grano, in modo che il vento separi i chicchi dalla pula, più leggera; dal lat. tardo ventulare per ventilare v.a. trëscà
vëracciéta, f. (bracciata) es. la quantità di legna che si prende con le braccia
vëràcia, f. (brace)
vërëcciérë, m. (brecciaio) pietaria di piccoli sassi da vërìccia (v.)
vërénna, f. (crusca) prob. voce di sostrato pre-indoeuropeo, analoga al franc. bran e al piemont. e lomb. bren; attestato in molti dialetti viciniori anche per forfora
vërìccia, f. (pietruzza, sassolino) da breccia, briccia
vëròllëchë, m. plur.(spinaci selvatici, chenopodium bonus-enricus) prob. da broccoli, vëròcchëlë, con metatesi; il termine brocco spesso sta genericamente per germoglio, virgulto, ecc.; altre denominazioni nell’area: òlacë, òrapë, òrbëcë, òropi, rapacciòlë, ròfënë, uólëtrë
vëruóccë, m. (braccio) pl. lë vëràccia
vërzéttë, m. (taschino)
vërzìnë, m. (borsellino) da borsino
vëscélla, f. (fiscella) in vimini, per ricotta e cacio
vëscìcchia, f. (vescica)
vèspa, f. (vespa) ma com. anche ape
vëtà, v. 1. voltare, girare i’ vòtë ecc. 2-votare i’ vótë, tu vùtë
vëtacchiùnë, m. pianta selvatica rampicante e lianosa: viticchio, clematis vitalba, da cui attraverso vitalbacclu prob. viene vitacchio
vëtëcà, v. (rovesciare) cfr. abbëtëcà
vëtiéglië, m. (vitello) vëtrà/vëtruó ?, v. (rivoltolarsi) nei fango, detto di animali dal lat. reg. *voltulare
vévë, v. (bere) rec. bévë (cfr. bàrba/vàrva) part. passato: vìvëte, bìvëtë, ma rec. bëvùtë
vëzzòca, f. (bizzocca) bigotta, spesso ciarliera o” malalènga”
vìbbra, f. (vipera)
vìccë, m. (tacchino)
viécchië, agg. (vecchio) f. vècchia pl. indist. neutro lë vècchiëra
v(ë)iétë, agg. (beato) loc.: v(ë)iétë a te
viérrë, m. (verro) porco non castrato
vìnchië, m. (frustino di legno) ramo flessibile e sottile usato anche per frustare, spesso evocato come minaccia: mo’ tòglië glië vìnchië; con vinco, vinchio, vingo si indicano varie specie di salice, in particolare il salix viminalis, e comunque un ramoscello di salice flessibile usato per fissare i tralci delle viti, per legare fieno, fascine, e anche per lavori di intreccio
vìnchië tuóschë, m . (vincetossico) vincetoxicum officinale frutice utilizzato un tempo contro le idropisie
vìnë, s.n. (vino) (art. lë del neutro di materia)
vìntë, (venti, numero)
vìrra, f. (spiffero)
vócca, f. (bocca) ‘mmócca: in bocca, con assimilazione
vóglië, v. (bollire)
vòmmëchë, m. (vomito) vomitare: rëiëttié nócë vòmmëca: alianto
vòta, f. (volta) loc. avv. na’ vòta: una volta, un tempo
vòta-ciélë, m. (capogiro)
vótë, m. (voto) come elezione; ma in senso religioso vùtë
vóttë , f. (bótte) pl. vùttë
vòvë, m. (bove)
vuócë, m. (bacio) pl. viécë
vuóchë, m. (acino,spec.d’uva) pl. viéchë
vuódë, m. (guado) topon. Vadëncìglie, ossia piccolo guado/valico
vuóie, m. (guaio) pl. viéië
vuóllë, m. (gallo)
vuóllëra, f. (ernia) da galla
vuórgnë, m. (bernoccolo) presente in molti dialetti come bornio, borgno e simili, nel senso di sporgenza, bitorzolo; in francese antico borne è la pietra sporgente dal muro, in provenzale borna è il cippo di confine; dal lat. parlato *eborneus, corno d’avorio, o da una base mediterranea but*, mucchio
vuósë, s.m. (vaso) pl. viésë
vuóstë, agg. (guasto)
vuóttë, m. (rospo) tosc. botta, bodda
vuó(v)vësë, m. (masso) prob. da balzo
vùtë, m. (1. gomito, 2. voto religioso) 1 dal lat. cubitus; per voto come elezione (ev. più recente) vedi vótë; ma pres. ind. 2° pers. sing. di vëtà (=votare) tu vùtë Z
zanëié, v. (girovagare senza scopo?) ger. zaniénnë pron. sonora tz
zànna, f. (dente, zanna) pron. sorda ts
zë, ( f. za) appellativo di rispetto davanti al nome delle persone anziane; da zio/zio o sor/sora pron. sorda ts
zëffënnà, v. (sprofondare) pron. sorda ts
zëmpà, v. (saltare) pron. sorda ts
zëmpëttà, v. (zampettare) pron. sorda ts
zënàlë, m. (grembiule) pron. sorda ts… “senale” da seno, come grembiule da grembo
zézë, f. (smorfie , moine, carezze) da cece, cfr. tosc. ceciare
zìppë, m. (zeppo, zipolo) piccolo pezzo di legno prob. dal longobardo zipul, punta pron. sorda ts
zìë (f. zìa), zio pron. sorda ts appellativo prima del nome zì
zìrrë, m. (ziro) contenitore per liquidi, gen. olio pron. sonora: tz…
zìzza, f. (mammella, tetta) pron. sorda: ts… dal longob. (vedi ted. Zitze, capezzolo); voce diffusa in molti dialetti italiani, presente in Boccaccio; cfr. anche il long. zinna, prominenza e anche mammella pron. sorda ts
zòccuëla, f. (zoccola, grosso topo) anche fig.”donna di facili costumi” pron. sorda : ts…
zùccrë, s.n. (zucchero) pron. sorda: ts… art . lë del neutro di materia
zuóppë, m. (caprone) pron. sorda: ts… voce prob. di orig. balcanica (sap), attestato nei dialetti vicini come zàppë, zuàppë, da non confondere con zoppo, che è ciuóppë pron. sorda ts
zùppa, f. (zuppa) di pane, di latte ecc. v. a. panëmmóllë pron. sorda ts
zùzzë, agg. (sporco) ma anche sporcaccione f. zózza = sporca, e sporcacciona pron. sorda: tsùttsë
|