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Mons. Dionigi Antonelli xxx
La chiesa di S. Maria di Canneto:
dalle antiche costruzioni all’attuale
ristrutturazione generale
(secc. XV-XX)
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7 marzo 2009
1.
Premessa
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Quando nel luglio 1978, a due mesi circa dall’inizio dei lavori di
ristrutturazione generale del Santuario, venne a Canneto la Commissione
Centrale dell’Arte Sacra con sede a Roma per un sopralluogo al vecchio
complesso al fine di poterne autorizzare la demolizione, in sintonia con
gli altri enti preposti alla tutela dell’ambiente, un alto prelato
all’uscire di chiesa mi disse: "Non c’è nulla. Potevate eliminare anche
la facciata". Voleva intendere ovviamente che nel tempio non "c’era
nulla di artistico" che andava conservato.
Invece, in una domenica di ottobre dello stesso anno, quando il vecchio
Santuario era già in gran parte abbattuto, una pia devota di Civitella
Alfedena, pur plaudendo al grande progetto che si andava realizzando,
con le lacrime agli occhi disse queste parole: "Eppure quelle vecchie
mura ci erano tanto care!".
Due considerazioni antitetiche, ma egualmente vere: l’una proveniva
dalla mente dell’esperto, che guardava esclusivamente allo stile,
all’estetica e alla statica dell’edificio sacro, estraneo del tutto alle
esperienze spirituali qui avvenute. L’altra sgorgava dal cuore, cioè
dall’insieme dei ricordi e dei sentimenti di un’anima, che in quella
medesima chiesa aveva goduto momenti particolari di comunione con Dio e
con la SS.ma Vergine.
"Non c’era nulla di artistico". Infatti la chiesa di Canneto era tutto
un mosaico di costruzioni, aggiunte l’una dopo l’altra, l’una accanto
all’altra, secondo le necessità dei tempi, senza un progetto unitario ed
organico, con alcuni spazi essenziali interposti non utilizzabili o
riconducibili a una funzione liturgica precisa e per giunta con mura
perimetrali fatiscenti e senza fondazioni, come è risultato proprio
dalla demolizione.
Non c’erano poi all’interno elementi architettonici d rilievo, come
archi, capitelli, fregi, stucchi e tanto meno affreschi o pitture da
salvare.La medesima facciata n stile rinascimentale, che poi è rimasta,
è opera del secondo decennio del secolo appena trascorso (1923-27).
L’unico nucleo antico è il nartece o pronao, che è stato conservato.
Difatti le sue volte a crociera, in pietra, sono del ‘500.
Ma il vecchio Santuario è stato abbattuto, non perché "non c’era nulla
di artistico", ma per la sua stessa sopravvivenza, in quanto con il
passare del tempo si rivelava a prova dei fatti sempre più inadeguato
alle esigenze di ricettività e di accoglienza, anche le più elementari,
di un pellegrinaggio in continua crescita, specie dopo l’arrivo della
strada carrozzabile a Canneto (1960) e si sentiva la necessità ognor più
incalzante di sostituirlo con un complesso (chiesa e forestia) più
grande, più organico, più funzionale e statisticamente più sicuro.
Se la chiesa con i suoi annessi fosse rimasta sostanzialmente com’era,
riuscendo a conciliare strutture nuove e vecchie (ma le varie soluzioni
tendenti a tale scopo, lungamente vagliate e sofferte, non furono
possibili), a parte che essa avrebbe dovuto fare i conti con il
terribile sisma del maggio ’84, che ha avuto il suo epicentro proprio
nel massiccio del Meta, le sarebbe stato precluso per sempre ogni
sviluppo futuro. Ma su questo aspetto tornerò nel corso della
trattazione.
"Eppure quelle vecchie mura ci erano tanto care!". Pure questo era
altrettanto vero, non solo per la pia devota di Civitella Alfedena, ma
anche per molti altri pellegrini, affezionati al Santuario fin
dall’infanzia. Era la voce del cuore e della memoria, delle gioie
spirituali vissute nella vecchia chiesa e della riconoscenza alla
Vergine SS.ma per tante grazie qui ricevute per sua materna
intercessione e perciò ogni angolo, anzi ogni pietra, dell’antica
costruzione aveva un suo linguaggio, un suo fascino.
Ma proprio in ossequio e rispetto a questi nobili e delicati sentimenti
del popolo, a questi forti richiami e legami con il passato, che si è
conservata la facciata con l’antico nartece sottostante.
E per ricordare indelebilmente non solo "quelle vecchie mura tanto
care", ma anche le persone che le hanno costruite, ampliate e conservate
durante i secoli con amore e dedizione, e i sacrifici che sono stati
compiuti da tutti: rettori, amministratori, eremite, fedeli e per gran
parte del secolo scorso, pur se in modo graduale e sempre più
impegnativo, anche dai vescovi diocesani, è nata in me l’idea di questo
"excursus" storico incentrato unicamente sulle vicende della chiesa di
Canneto, come edificio sacro.
2.
La chiesa nel 1475. Il primo restauro storico
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Un primo accenno alla chiesa di S. Maria di Canneto, come edificio, si
rinviene nella lettera collettiva "Deum placare" del 25 novembre 1475,
il cui contenuto è ben noto. Con essa i due cardinali di S.R.C.,
Bartolomeo Roverella e Giuliano della Rovere, il futuro papa Giulio II,
su richiesta dell’abate commendatario di Canneto, Francesco de Vulpinis,
concedevano alla "Chiesa del dirupo monastero di S. Maria di Canneto
dell’ordine benedettino nel territorio del castello (o borgo
fortificato) di Settefrati, diocesi di Sora" cento giorni d’indulgenza
da lucrarsi sul luogo in determinati giorni, tra i quali il 22 agosto,
affinché i fedeli salissero più frequentemente lassù per godere di
questo beneficio spirituale ed offrire nel contempo il loro obolo per il
restauro e la manutenzione della medesima chiesa.
Notiamo alcune espressioni letterarie che figurano nel documento e che
fanno al caso nostro:
- la prima espressione è questa: si parla di "Chiesa del dirupo
monastero della Beata Maria di Canneto", da cui deduciamo che il tempio
mariano e il monastero benedettino dovevano essere due costruzioni
distinte ed anche distaccate. L’uno era funzionale, ma aveva bisogno di
riparazioni, perciò l’abate de Vulpinis si era rivolto con la sua
petizione alla Santa Sede per un contributo, mentre l’altro, abbandonato
da oltre un secolo dalla comunità religiosa, che era scesa ad abitare
nei dintorni di Settefrati, era ormai in rovina.
Questa seconda costruzione si trovava nelle vicinanze della chiesa, al
lato sud della Valle, a quota leggermente più bassa e al riparo dei
venti e delle tormente di neve. Sulle sue rovine nel 1778 sorse la ben
nota ferriera regia per lo sfruttamento industriale della limonite di
Canneto. Il minerale era più esattamente il sesquiossido di ferro
idrato, uno dei minerali del ferro, ancora oggi rilevabile nella zona.
- La seconda espressione letteraria riguarda la sacra costruzione, vera
e propria, e dice: "affinché la chiesa sia debitamente riparata e
mantenuta nelle sue strutture ed edifici". "Strutture ed edifici": due
termini che si addicono più alle nuove opere edili di oggi che a quelle
di cinque secoli fa.
Senza forzare il senso delle due parole, sono d’avviso che il primo
termine, "le strutture", stia ad indicare le mura perimetrali, il tetto
e i pilastri interni, mentre il secondo termine, "gli edifici", voglia
significare le aule o navate.
Doveva trattarsi di una chiesa a tre navate, di cui quella centrale era
poco più alta delle due laterali, con un unico tetto a due spioventi,
coperti a canali e con tre ingressi sul prospetto.
3.
Nei primi decenni del sec. XVI: incrementi edilizi
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Gli anni indicati sono quelli della prepositura di d. Federico De
Manlion, prete spagnolo, nella chiesa di S. Maria di Canneto. Ma nella
storia del santuario lo troviamo più esattamente negli anni 1530-1533,
alla fine del suo abbaziato, quando vecchio e malato nella sua
abitazione di Settefrati con alcuni raggiri fu da incaricati di
Montecassino costretto a rinunciare al suo beneficio.
Da un manoscritto non firmato né datato dell’archivio cassinese, ma da
porsi verso la fine del sec. XVI, scritto a mo’ di lettera informativa,
veniamo a sapere che il buon prete, vistosi ingannato e defraudato, fece
ricorso alla S. Rota, che, dopo aver accertato i fatti, lo reintegrò nei
suoi diritti e nelle sue funzioni.
Il documento ci dice tra l’altro che il De Manlion aveva posseduto "per
molti et molti anni" pacificamente quel beneficio e che aveva "riparato
la chiesa et l’habitatione et fabricatovi di molte altre stanze et
accomodato et acconcio ogni cosa, acciò che li Popoli non perdessero la
divotione che havevano a quella chiesa et che non si perdessero molte
reliquie che vi erano".
Notizie veramente interessanti per questa nostra ricerca ed, attesa
l’epoca a cui esse si riferiscono, gli inizi del ’500, assai rare a
reperirsi nei maggiori archivi, come quello diocesano o l’Archivio
Segreto Vaticano.
Rileviamo innanzitutto per la prima volta l’esistenza a Canneto di
un’abitazione per il preposito, ovviamente annessa alla chiesa, in un
posto imprecisabile, anche se preferiamo pensarla al lato sud, in fondo
verso il fiume, nel sito dove sorse in seguito la Casa dell’eremita,
essendo un posto più soleggiato e al riparo dei venti gelidi del nord.
In quanto alle "molte altre stanze", che il bravo abate-preposito vi
fabbricò, oltre a quelle della detta abitazione che preesistevano, esse
erano indubbiamente quelle, che si allineavano, sia sul portico frontale
della chiesa, sia sulle due navette laterali, a ridosso del muro
perimetrale della navata centrale.
Il buon d. Federico sul davanti della chiesa fece costruire un portico
con tre archi e con volte a crociera in pietra, sul quale sistemò le
prime tre stanze con regolari finestre sul prospetto; poi, sempre
restando nel circuito delle mura esterne del sacro edificio
preesistente, abbassò ambedue le volte laterali per ricavarvi sopra
quattro stanzette per parte con piccole finestre sui due lati opposti
della chiesa, a nord e a sud. Quelle del lato sud sono certe, come si
può rilevare dalla prima foto storica del santuario, che ritrae appunto
questa parte e la facciata con il piccolo portico sottostante.
All’interno, nel piano della chiesa, per dare luce ed aria alle due
navette laterali, egli aprì tre finestrole per parte, come ci mostra la
medesima foto.
Un indizio sicuro di questo adattamento fatto da d. Federico era
l’esistenza di una finestra a lunetta rimurata, che dava direttamente
all’interno della chiesa e che si trovava nella cosiddetta "stanza delle
suore", l’ultima delle antiche stanzette a destra, rimaste fino ai
nostri giorni.
Essa senza alcun dubbio provava due cose:
-
che la
precedente navata destra e di conseguenza, per ragioni di simmetria
e per esigenze architettoniche, anche quella di sinistra, arrivava a
tale altezza con una finestra a lunetta sommitale per parte;
-
che
questa era la parete di fondo, che chiudeva ad est la primitiva
chiesa.
Anche la navata di centro della detta chiesa, per ragioni di luce e di
aerazione, aveva sulla parete di fondo in alto una finestra lunata. Alle
stanzette del piano superiore si accedeva mediante scalinata esterna ad
una o due rampe, situata nella parte nord del santuario. All’interno
dell’antico tempio non c’era spazio per una struttura del genere.
Una delle tre camere del prospetto e più esattamente quella posta
all’angolo sud-ovest, come indicava il comignolo soprastante che qui
svettava, era adibita a cucina. Anche questo un particolare rivelatoci
dalla medesima foto.
Con tale serie di stanze e stanzette, che dovevano essere in tutto n°
11, sistemate al piano superiore del santuario, l’intraprendente
abate-preposito dotò la chiesa di Canneto dei primi servizi,
indispensabili soprattutto nel giorno della festa che già allora si
celebrava il 22 agosto con relativa vigilia, consistenti in piccoli
dormitori, dispensa, guardaroba e cucina.
Era il minimo richiesto per alloggiare convenientemente un buon numero
di sacerdoti confessori e di laici addetti ai vari compiti: trasporto di
viveri con quadrupedi, preparazione dei pasti, raccolte di offerte e
pulizie.
Da allora in poi i detti servizi restarono sempre in quel piano a
ridosso della chiesa fino alla nostra epoca, condizionando purtroppo
ogni ulteriore sviluppo dell’edificio sacro, specie dalla parte delle
tre navate, che rimasero per secoli ingabbiate tra quei servizi.
Invece il nuovo portico o nartece antistante veniva a coprire i tre
ingressi del tempio e nel contempo offriva vantaggiosamente ai
pellegrini un piccolo riparo per la notte o durante le ore cocenti della
giornata o in caso di intemperie, che erano e sono ancora frequenti nel
giorno della festa. In verità, ben poca cosa rispetto alle moltitudini
di fedeli che affluivano a Canneto.
Era comunque il primo tentativo di dare un ricovero almeno a una piccola
parte di pellegrini, quale segno di ospitalità e di fraternità. Un
problema, che ha sempre assillato gli amministratori del santuario e
che, dopo tanti secoli, nonostante le ultime grandi costruzioni degli
anni ’80 del secolo appena trascorso, è ancora lungi dall’essere
risolto.
4.
Il primo prolungamento della chiesa. Reliquie e
devozione popolare, nella medesima epoca
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Anche l’aula trasversale, il transetto, che ingrandiva e prolungava il
primitivo tempio della Madonna, dovette essere opera dell’infaticabile
d. Federico De Manlion, sia perché nel 1693, come constateremo, essa già
esisteva, sia perché nelle fonti archivistiche non si rinviene alcun
cenno a questo importante incremento edilizio dell’antico santuario.
Questa nuova costruzione, che si aggiungeva alle tre precedenti navate,
inglobandole in un’unica struttura, e che dava a tutto il complesso
sacro la forma di croce latina, era più ampia e più alta della parte più
antica antistante e conferiva indubbiamente a tutta la chiesa più
spazio, più luce ed agibilità.
L’unico lato in cui era possibile realizzare un’opera del genere era
quello orientale, verso il fiume. A tale scopo fu abbattuta la parete di
fondo del primitivo tempio e venne costruita la nuova aula dall’aspetto
molto semplice, senza ornamenti e decorazioni.
Sul nuovo muro di fondo, in corrispondenza con la navata centrale, fu
eretta una nuova cappella della Madonna con l’altare, il trono e una
finestra a lunetta sovrastante. Nelle due pareti opposte, situate a nord
e a sud, in alto, vennero aperti due finestroni per parte, che davano
luce ed aria, e in basso nel piano della chiesa, furono situate due
porte d’uscita, l’una a nord e l’altra a sud.
Ai lati della cappella della Madonna, che al tempo della nuova
costruzione rimasero vuoti, solo in epoca posteriore furono posti altri
due altari con altrettante finestre a lunetta sovrastanti,
alquanto più basse rispetto a quella
centrale, come ci dimostra chiaramente un’altra antica foto del
santuario, che ritrae questa parte retrostante della chiesa.
La somma necessaria per attuare tali opere e che, attesa l’entità dei
lavori eseguiti, dovette essere anche ingente, proveniva certamente
dalle offerte che i devoti di anno in anno facevano al santuario in
occasione della loro visita
alla Madonna o accogliendo nei loro paesi i
questuanti o le questuanti (le eremite) di Canneto, che vi si recavano
per le raccolte del grano, dell’olio o di altre derrate, come sarebbe
avvenuto tante volte nei secoli seguenti. Offerte quindi in denaro, in
oro e in natura.
Ma, anima e cuore di tutta quell’opera, che in considerazione delle
difficoltà del luogo e dei tempi può dirsi veramente grande, fu l’abate
dell’epoca d. Federico De Manlion, il quale, grazie anche al suo lungo
abbaziato di Canneto, durato oltre trent’anni se non quaranta, poté
attuare, ovviamente a più riprese e secondo
le disponibilità finanziarie del
santuario, il suo coraggioso progetto di dotare la chiesa della Vergine
di servizi essenziali e di prolungarne il tempio con un nuovo corpo di
fabbrica.
Lo scopo che egli si prefiggeva con tali realizzazioni è esplicitamente
indicato nel citato anonimo manoscritto di Montecassino: affinché i
popoli conservassero la devozione verso la Madre di Dio e non andassero
disperse le numerose reliquie, che qui si custodivano.
Quindi due motivi di grande richiamo per le folle di Canneto: la chiesa
della Madonna Bruna, che diveniva sempre più accogliente, grazie
soprattutto alle oblazioni dei fedeli, e il cospicuo patrimonio di
reliquie qui conservato, garanzia di protezione dei rispettivi santi dal
cielo.
Concludendo. Questo complesso sacro di Canneto, rinnovato ed ingrandito
nei primi decenni del sec. XVI, qui sufficientemente descritto, si
conserverà nelle sue strutture generali pressoché invariato, salvo
lavori di riparazione e di consolidamento dovuti ad intemperie e
terremoti, per altri tre secoli fino ai nuovi restauri ed ampliamenti
del 1853-57.
5.
Unione del beneficio di S. Maria di Canneto e della
sua Chiesa al Seminario di Sora (1569)
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Il 15 luglio 1563 con il decreto "Cun adolescentum" il Concilio di
Trento aveva stabilito che le singole Chiese Cattedrali, metropolitane
ed altre Chiese maggiori, a seconda dei mezzi e dell’ampiezza della
diocesi, educassero religiosamente ed istruissero nelle discipline
ecclesuastiche un certo numero di fanciulli da tenersi in un "collegio",
sito presso le stesse chiese o in un altro luogo conveniente.
Tali fanciulli dovevano avere almeno l’età di 12 anni, legittimità di
natali, saper sufficientemente leggere e scrivere e mostrare indizi di
vocazione ecclesiastica, a cominciare da alcune qualità umane
insostituibili, come la docilità di carattere e la buona volontà.
Il principio-base, che ispirò ai Padri Tridentini la fondazione di detti
"collegi" o seminari diocesani, è enunciato fin dall’inizio del citato
decreto: "L’età degli adolescenti, se non viene rettamente educata, è
prona a seguire i piaceri del mondo, e se non s’informa fin dai più
teneri anni alla pietà e alla religione, prima che i vizi si
impadroniscano di tutto l’uomo, non potrà giammai…, senza quasi un
singolare aiuto dell’Onnipotente, perseverare nella disciplina
ecclesiastica".
Parole sagge e lungimiranti, che genitori, maestri e sacerdoti
dovrebbero sempre tener presenti per non rendere vana la loro azione
educativa e formativa. L’allora vescovo sorano Mons. Gigli, che aveva
partecipato alla terza ed ultima fase della grande assise, al suo
ritorno a Sora, pensò di dare subito un collegio-seminario alla diocesi.
Il 7 giugno 1565, ad appena un anno e mezzo dalla conclusione del
Concilio, il pio istituto risultava già fondato. Il vescovo stesso
metteva a disposizione dei primi alunni, come sede provvisoria, un’ala
del palazzo vescovile.
Ma, poiché il collegio-seminario, secondo il Tridentino, doveva essere
aperto soprattutto ai "figli dei poveri, senza però escludere quelli dei
ricchi a condizione tuttavia che siano mantenuti a loro spese…", il
problema più urgente che Mons. Gigli si poneva era quello di reperire i
mezzi finanziari indispensabili per il sostentamento degli alunni, per
il salario dei professori e degli inservienti e, in prospettiva, per
costruire una nuova residenza più idonea e rispondente alle esigenze
degli adolescenti.
Per far fronte alle suddette necessità il sacrosanto sinodo aveva
concesso ai vescovi ampie facoltà su tutti i redditi e i proventi degli
enti, delle istituzioni anche regolari ed esenti e dei benefici
ecclesiastici. Nell’ambito della diocesi di Sora il vescovo Gigli,
usufruendo di tali facoltà, unì al nuovo collegio-seminario i seguenti
benefici vacanti in questo ordine di tempo e di luoghi:
Il 7 giugno 1565 furono annessi i benefici di S. Lucia e di S. Maria in
territorio di Schiavi (Fontechiari) con la chiesa di S. Bartolomeo,
posta nel palazzo del marchese di detto paese. Il 28 agosto e il 22
novembre dello stesso anno vennero uniti i benefici di S. Cristoforo e
di S. Matteo in S. Donato V.C., quelli di S. Angelo in Campoli, di S.
Maria in Vicalvi e di S. Onofrio in Alvito.
L’8 giugno 1569 Mons. Gigli con strumento pubblico, rogato dal notaio
Giovanni Battista de Baiozzi di Frosinone, univa al pio istituto anche
il grande beneficio della chiesa di S. Maria di Canneto in Settefrati,
che in tal modo passava dalle dipendenze dell’abbazia di Montecassino
alla giurisdizione dei vescovi di Sora.
Tale evento costituiva per l’antico tempio mariano una vera svolta
storica nelle sue vicende, già più volte secolari, in quanto
all’alpestre chiesa di Maria, affidata da allora in poi al clero
diocesano e locale, cioè di Settefrati, più direttamente interessato e
partecipe degli avvenimenti di Canneto, si aprivano maggiori possibilità
di sviluppo, sia sul piano delle strutture murarie, sia su quello della
vita religiosa.
Così difatti si è verificato nei secoli successivi fino ai nostri
giorni. L’attuale ristrutturazione generale del santuario e il grandioso
pellegrinaggio di oggi ne sono la prova più evidente e significativa.
Ma quello dell’8 giugno 1569, più che un passaggio dalla giurisdizione
monastica alla giurisdizione vescovile, era un ritorno alla diocesi di
Sora, dopo quasi tre secoli che l’abbazia di Canneto era stata una delle
prepositure cominesi di Montecassino, cioè da quel fatidico 13 dicembre
1288, quando il collegio di chierici, residente e in servizio presso
detta chiesa, fino allora dipendente direttamente dai vescovi sorani,
ottenne dal papa Niccolò IV la concessione della regola benedettina da
osservarsi in quella comunità, trasformandosi in tal modo in una
obbedienza o cella dell’abbazia cassinese.
Da quell’epoca la chiesa di S. Maria di Canneto rimase affidata al
seminario diocesano di Sora con l’obbligo di manutenerla e di
provvederla della suppellettile necessaria, mentre il rettore del pio
istituto divenne nel contempo anche rettore del santuario. Tale
dipendenza durò per ben quattro secoli fino al 1972, quando il vescovo
di Sora, Mons. Minchiatti, prese la decisione di dividere i due
incarichi, consentendo alle due pie istituzioni, il seminario e il
santuario, di seguire ciascuna la propria strada.
6.
La Valle di Canneto e la sua Chiesa nel 1574
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Il Prudenzio, storico di Alvito, per quanto fino ad oggi risulta, è il
primo scrittore di Val Comino a parlare della Valle di Canneto e della
chiesa dedicata alla Vergine, ivi posta. Egli, descrivendo il paese di
Settefrati nel cui territorio da sempre si trova il santuario, così si
esprime:
"Le montagne sono finissime con acqua in grande abondantia et in esse
nasce la Melfe, che all’uscir sotto un masso porta certa arena aurata,
mostrando che l’acqua passi per vena di oro. Vi è una chiesa che se le
dice S. Maria di Candido, ben fabricata et con buone stantie: è luoco
molto atto alla solitudine per un eremita.
Se visita spesso, et devotamente da convicini, et vi sono assai sante
reliquie, con un pezzetto del legno della santissima Croce, dove il
nostro Redentore fu chiovato et morìo per noi".
Nella breve, ma succosa descrizione dello storico alvitano risaltano
quelli che erano gli aspetti più tipici e propri della Valle di Canneto:
le sorgenti del Melfa, la chiesa, il pellegrinaggio e le reliquie.
Le sorgenti, ovvero più comunemente Capodacqua. Questo angolo
suggestivo, posto al lato nord-est del pianoro, era caratterizzato da
due fenomeni naturali più unici che rari: lo sgorgo di un fiume ai piedi
di un enorme masso e il luccichío, nelle acque limpide e gelide, di
minute scagliette d’oro, chiamate in diverso modo dagli scrittori
posteriori, che i pellegrini di Canneto nei momenti di relax si
dilettavano ad individuare e raccogliere, cercando di conservarle nei
fazzoletti. Quei devoti le chiamavano amabilmente: "Le stellucce della
Madonna".
Il luogo, sacro fin dalla più remota antichità (sec. IV a.C.) per il
culto ivi reso alla deità fluviale, identificata con Mefite, dea della
salubrità dell’aria, costituiva inoltre un’oasi di fresco e di ristoro,
specie nelle ore meridiane, quando il solleone dardeggia a picco,
avvolgendo il pianoro in una immensa irrespirabile vampa.
Questo lembo paradisiaco della valle con tutte le sue bellezze è
stato distrutto nel 1958 con le opere di captazione delle acque
sorgive per l’approvvigionamento idrico di molti paesi e reso
inaccessibile mediante recinzione. Da qualche anno -dulcis in fundo-
è vietato sostare anche al di là del canale, dove scorre l’ultimo
rigagnolo superstite di "un grande fiume" ("mégas potamòs"), come lo
chiamava Strabone (sec. I a.C.).
La chiesa. Il Prudenzio la chiama in dialetto alvitano: "S.
Maria di Candido". Essa risultava "ben fabricata et con buone
stantie". In questa breve indicazione vediamo tutta l’opera
realizzata alcuni decenni prima dall’infaticabile abate di Canneto
d. Federico de Manlion (…1530-1533), già ampiamente illustrata nella
precedente puntata.
In sintesi, egli prolungò la chiesa, aggiungendo alle tre navate
preesistenti l’aula del transetto, costruì al primo piano varie stanze e
davanti ai tre ingressi innalzò un portico o nartece con tre archi
frontali, con volte a crociera in pietra e tre camere soprastanti.
Questo nucleo abitativo del ’500 è rimasto pressoché invariato anche nei
successivi restauri ed ampliamenti della chiesa ed è chiaramente
individuabile nella foto più antica del santuario, risalente a metà del
sec. XIX, che ormai conosciamo.
Il nartece con i tre archi, con le volte a crociera in pietra e di
conseguenza le tre camere originarie soprastanti sono stati
intenzionalmente lasciati anche nella ristrutturazione generale del
1978-1983 del santuario, inglobandoli nelle nuove architetture, allo
scopo di conservare una vera "reliquia" dell’antico tempio mariano.
In tal modo una parte dell’opera di d. Federico de Manlion è
sopravvissuta alle impellenti esigenze delle nuove costruzioni ed è
destinata con le medesime a perpetuarsi felicemente nel tempo. L’umile
abate di Canneto non pensava certamente di assurgere a tanta gloria, che
oggi la memoria storica giustamente gli rende.
Il pellegrinaggio. La Valle di Canneto conosce il fenomeno fin
da epoca precristiana in ragione dell’esistenza presso le sorgenti
del Melfa di un santuario italico-romano risalente ai secc. IV-II
a.C., situato a circa 7 metri di profondità ed individuato, nelle
trivellazioni del suolo, durante le opere di captazione delle acque
sorgive, già accennate.
Dalla monetazione ivi rinvenuta con altro materiale votivo, databile
appunto nei suddetti secoli, e dai relativi coni si deduce che a Canneto
convenivano varie popolazioni italiche e latine per compiere alle fonti
del fiume riti propiziatori.
Il pellegrinaggio mariano inizia storicamente nel dicembre 1288, quando
nella chiesa di S. Maria di Canneto troviamo per la prima volta un
collegio di chierici, addetto al servizio del tempio e all’assistenza
religiosa dei devoti, che qui affluivano.
Col tempo esso crebbe nel numero dei fedeli e nei giorni delle visite,
soprattutto dopo il 25 novembre 1475, quando la Santa Sede concesse
l’indulgenza di 100 giorni da potersi lucrare in cinque ricorrenze
liturgiche: l’Assunzione, la sua Ottava, la Natività di Maria, la
Natività di S. Giovanni Battista e la Dedicazione della chiesa.
All’epoca dello scrittore alvitano (1574) i devoti si portavano a
Canneto con frequenza ("spesso"), specialmente in quei cinque giorni
dell’indulgenza; in spirito di penitenza e di preghiera ("devotamente"),
provenienti dai paesi vicini ("da convicini").
Le reliquie. Esistevano a Canneto fin dai tempi di d. Federico
de Manlion ed erano molte. Le toccanti parole con cui il Prudenzio
parla di queste reliquie in dotazione della chiesa di Canneto e del
pezzetto del legno della croce, concludendo la sua breve relazione
sulla valle, sono di quelle che lasciano il segno in chi le legge
attentamente: "et vi sono assai sante reliquie, con un pezzetto del
legno della santissima Croce, dove il nostro Redentore fu chiovato
et morìo per noi".
Questa non è solo l’informazione di un vero storico, ma anche e
soprattutto il messaggio di un vero credente.
7. La chiesa di S. Maria di Canneto nel 1595
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Nella "Relazione familiare" sullo Stato di Alvito, fatta nel 1595 al
Cardinale Tolomeo Gallio di Como, che era in procinto di prendere
possesso del feudo cominese, l’anonimo estensore del documento fa un
accenno anche alla chiesa della Madonna di Canneto.
Difatti, parlando del fiume Melfa, dice così: «Questo fiume nasce sopra
Picinisco cinque miglia in luogo alto e montuoso, dove è una Chiesa
chiamata Santa Maria di Canneto e nella scaturigine dell’acqua si vedono
scaturir mescolate con l’acqua alcune scintille d’oro, che attaccate
alla mano o a qualche panno durano così per un poco, ma poi per la loro
sottigliezza svaniscono».
Il relatore, continuando a descrivere il corso del fiume, rileva ancora
che le sue acque, prima scendono tumultuose e rumoreggianti per rupi e
dirupi verso Picinisco; poi, raggiunta la pianura sottostante al paese,
mettono in azione vari mulini di grano e gualchiere di panni, situati
lungo le rive. Acque fresche, limpide e, nelle quote più basse,
pullulanti di squisite trote.
La chiesa della Madonna, il Melfa che scorre ai suoi piedi e le sorgenti
del fiume, che rampollano da sotto un grosso masso, scintillanti di
scagliette d’oro, erano anche in quell’epoca le suggestive visioni della
Valle di Canneto.
8. Le reliquie di S. Maria di Canneto traslocate nella
chiesa di S. Stefano di Settefrati (1618 circa)
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Erano molte. Ne abbiamo avuto un primo accenno durante la prepositura di
d. Federico de Manlion (...l530-l534); poi un secondo accenno più
preciso nel 1574 dal Prudentio di Alvito, il quale ci fa sapere
che tra quelle molte reliquie si trovava anche un pezzetto del legno
della croce.
Il vescovo di Sora Giovannelli (1609-1632), convinto e fervente cultore
lui stesso di reliquie e di corpi di santi diocesani, come di quello di
S. Giuliano martire, che egli rinvenne nell’omonima chiesa di Sora,
nella «Raccolta dei decreti di S. Visita» annota di sua mano (se ne
riconosce bene la calligrafia) che ai suoi tempi tutte le reliquie di
Canneto, chiesa unita al seminario di Sora, si conservavano sotto
l’altare maggiore della chiesa di S. Stefano di Settefrati e nelle prime
pagine del suo "Libro verde" ce ne trasmette in grande evidenza un
elenco dettagliato e preciso.
Erano esattamente n. 32 reliquie. Ne indico qui alcune. L’elenco inizia
con le reliquie degli apostoli: S. Andrea, S. Bartolomeo, S. Simone, S.
Luca, poi S. Marco Evangelista, S. Biagio Martire ed altri santi e si
chiude con S. Apollonia Vergine e Martire.
Le ragioni per cui esse furono traslate a Settefrati e perché erano così
tante, potevano essere almeno due: per una maggiore sicurezza delle
medesime e per una funzione protettiva del paese.
In quanto alla prima ragione, a Settefrati la cospicua raccolta di
reliquie di Canneto era più al sicuro che non nella chiesa alpestre
della Madonna, così solitaria e lontana dai centri abitati, e perciò più
esposta a furti anche di reliquie, così frequenti in quei tempi.
In quanto alla seconda ragione, fin da epoca medioevale era convinzione
comune che le reliquie fossero pegni tangibili di protezione e di difesa
e di conseguenza più se ne possedevano e più santi intercessori si
avevano in cielo ad implorare presso il trono dell’Altissimo grazie e
favori, specie contro quelli che erano i mortali nemici dei nostri
paesi, sempre in agguato: le torme di avventurieri e di predoni, che per
secoli passarono e ripassarono, saccheggiando e distruggendo, per queste
contrade; le bande del brigantaggio locale, che infestarono senza tregua
queste zone fino al 1870; nonché le calamità naturali (carestie,
epidemie e terremoti) che funestarono periodicamente le medesime valli.
In situazioni e frangenti del genere le popolazioni locali, inermi ed
abbandonate al loro destino dai governi centrali, sovente deboli o
inesistenti, riponevano la loro salvezza unicamente nei santi
protettori.
9.
Il patrimonio fondiario di S. Maria di Canneto
nell’agosto 1619
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Come si ricorderà, era aggregato con altri benefici parrocchiali della
diocesi al seminario di Sora fin dal giugno 1569 per il sostentamento
del pio istituto. Dall’inventario dei beni immobili di tale chiesa,
compilato nell’agosto 1619 da d. Giulio Annichino, arciprete di
Settefrati, e trascritto nel "Libro verde" dell’archivio diocesano,
veniamo a conoscere per la prima volta nella storia del santuario i
paesi e le relative contrade (microtoponimi), dove detti beni erano
localizzati.
Ben 64 appezzamenti di terra si trovavano in territorio di Settefrati;
due orti e un casalino a Settefrati centro; una terra a S. Donato V.C.
(Castagneto) e un’altra a Gallinaro (Rio); alcune piante d’olivo erano
poste a Picinisco in due siti diversi ed altre a Posta (Posta Fibreno)
in tre siti diversi.
Dal che si deduce che la quasi totalità delle proprietà della chiesa di
Canneto erano localizzate nel territorio di Settefrati e perciò esse
provenivano dal gran cuore di quegli abitanti, che fin da remote età,
come si evince qui chiaramente, erano profondamente devoti e munifici
verso il santuario, che la Provvidenza aveva posto dentro i confini del
loro paese.
Difatti il documento dell’agosto 1619 è la testimonianza più antica, più
splendida e convincente del loro indefettibile amore ed attaccamento a
quell’augusto tempio della Vergine.
10. Un pellegrino scrittore a Canneto nell’anno 1633.
Il primo diario di una visita al santuario
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Paolo Mattia Castrucci (1575-1633), storico di Alvito, come il suo
concittadino Giulio Prudentio (1574) di poco anteriore, al pari di ogni
buon Alvitano, da sempre devoto della Madonna Bruna, un giorno volle
farsi anche lui pellegrino di Canneto, salendo dalla parte di Settefrati
attraverso quel medesimo sentiero, che avevano già percorso da secoli
generazioni di devoti, per visitare la chiesa della Vergine e godersi le
meraviglie di quella valle incantata.
Egli nella sua unica pubblicazione: «Descrittione del Ducato d’Alvito
nel Regno di Napoli» (1633) ci ha lasciato il ricordo incancellabile di
quel suo viaggio a piedi, che egli, parlando di Settefrati, descrive
minuziosamente in alcune pagine, ridondanti di particolari
paesaggistici, di immagini e di similitudini, non sempre appropriate,
volte a meravigliare il lettore, secondo le mode di uno scrittore del
primo seicento letterario italiano.
Ne riassumo qui il racconto, cogliendone i tratti essenziali e
trascrivendolo in linguaggio corrente.
Il vero pellegrinaggio iniziava dalla Madonna delle Grazie di
Settefrati, seguendo un sentiero, che andava verso il levante estivo e
che dopo un certo tratto pianeggiante iniziava a salire verso le alte ed
erte montagne dell’Appennino. Il viottolo si snodava in una serie di
serpentine, che erano state scavate e ben sistemate dai cittadini di
Settefrati e che rendevano meno faticosa l’ascesa.
C’erano dei tratti in cui la via passava tra rupi a strapiombo, sotto
l’ombra di alberi d’alto fusto, che riparavano il pellegrino dai raggi
cocenti del sole estivo. A confortarlo lungo la mulattiera e a rendere
meno noioso il suo viaggio c’era il canto di svariati uccelli, che
nidificavano a quelle altezze.
Dopo due miglia di cammino si arrivava finalmente in una "valletta" dove
su un poggio era posta la "devota chiesa della Madonna di Canneto".
Nell’entrarvi si sentiva un "sì suave freddo e pio orrore" che nel cuore
del pellegrino destava un sacro rispetto, misto a timore e pietà per
quel luogo così sacro e venerando.
«Tra queste selve amene, sacre solitudini, ed orrori venerandi si
trovava la piccola chiesa della Beata Vergine di Canneto, con certe
poche stanziole, fabbricate da un romano, fuggendo la Corte di Roma con
il desiderio di essere riportato e sepolto nella sua amata chiesetta tra
i monti e quando ciò avvenne, vi successe un so che miracolo».
Alla sua morte il pio prete lasciò alla chiesetta un legato con un
reddito annuo di 200 scudi, ora unito al seminario di Sora. A Canneto
restava solo la sua tomba senza alcuna iscrizione, alla quale faceva da
cornice la bellezza del luogo e quella sacra solitudine.
Non lontano dal tempietto si trovavano le sorgenti del Melfa ("la bella
Melfi"), che formava un ameno laghetto con all’intorno un "boschetto di
drittissimi faggi" e brevi lembi di terra coperti di erbette, di fiori e
fragole. Un luogo fresco ed ombroso al riparo del sole cocente dei
meriggi estivi, dove lo stanco pellegrino poteva tranquillamente
sostare, rifocillarsi e riposare.
Le sue acque erano quanto di più meraviglioso e dilettevole si potesse
ammirare. Erano limpidissime così da lasciar vedere il fondo arenoso,
dove qua e là rilucevano "certe scintille d’oro"; freddissime al punto
da non potervi tenere la mano dentro se non per pochi istanti e perciò
non c’erano trote, che invece si rinvenivano a quote più basse del
fiume...
Queste acque, dopo aver lasciato il laghetto, prendevano il largo,
lambendo le due rive e poi, giunte sotto il poggio dove era situata la
chiesetta della Madonna, scomparivano rumoreggiando nelle valli
sottostanti.
Nel racconto del Castrucci di Alvito troviamo il primo diario del
pellegrino a Canneto, che ci fa conoscere i momenti più salienti della
sua giornata passata su quei luoghi alpestri: la lunga e faticosa marcia
tra le balze e le fitte faggete, l’arrivo alla meta sospirata, la visita
alla Madonna e poi il ristoro e il riposo a Capodacqua, dilettandosi ad
intervalli a ricercare le "scintille d’oro" e nel pomeriggio, dopo un
ultimo saluto alla Vergine, riprendere la via del ritorno verso casa.
Immagini, gesti ed esperienze di sempre. Allora, come ai nostri giorni.
All’epoca dello storico alvitano era ancora vivo il ricordo dell’abate
d. Federico de Manlion, a un secolo esatto dalla sua morte. Era lui il
preposito di cui lo scrittore parla senza dirci il nome, perché non era
scolpito nemmeno sulla sua tomba, che si trovava nella chiesetta di
Canneto.
Era lui che aveva costruito quelle "stanziole" e che aveva espresso il
desiderio di riposare per sempre accanto a quella Vergine Bruna, che
tanto aveva amata e fatto amare. Era figlio della cattolica Spagna e non
di origine romana.
11. La chiesa di S. Maria di Canneto nel 1639-1642.
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Dagli Atti di sacra visita di questi anni del vescovo di Sora Mons.
Felice Tamburrelli emergono i primi particolari dell’interno della
chiesa di Canneto, e le prime notizie storiche delle feste tradizionali
della Madonna ed infine dell’esistenza di una chiesetta dedicata alla
SS. Annunziata, situata sulla spianata del tempio.
La visita al santuario, per mandato speciale del vescovo, fu effettuata
da d. Michele Cardelli, arciprete di Settefrati. Nella sua relazione al
presule il reverendo convisitatore faceva le seguenti annotazioni:
All’interno della chiesa si trovava l’altare maggiore, che però mancava
dei requisiti necessari per celebrare la Messa e, poiché sulle pareti si
rilevavano infiltrazioni di acqua, bisognava procedere quanto
prima alle opportune riparazioni del tetto.
Il 22 agosto, ottava dell’Assunta, vi si celebrava la festa della
Madonna di Canneto con grande concorso di cittadini e di fedeli,
provenienti da molti paesi e città. Alla vigilia della festa, come da
antica e lodevole tradizione, tutto il clero di Settefrati di buon
mattino si avviava processionalmente verso detta chiesa, risalendo
lentamente i monti e portando le reliquie dei diversi santi. Qui giunti,
ad orario canonico, si cantavano i primi vespri solenni.
Nel giorno della festa, per comodità del popolo, si celebravano più
Messe non solo nella chiesa grande, ma anche nella cappella
dell’Annunziata, che sorgeva sul piazzale. Dopo le singole celebrazioni
si distribuiva ai fedeli del pane, i cosiddetti panicelli.
Le offerte, che si raccoglievano durante la Messa solenne, spettavano
alla chiesa di Canneto, che peraltro era tenuta a proprie spese ad
assicurare mattina e sera il vitto a tutti i sacerdoti intervenuti ed
ovviamente anche al personale laico addetto in quei giorni al santuario,
nonché a fornire il frumento necessario per la confezione di quei pani.
La chiesa della Madonna aveva annualmente una rendita di 180 ducati, che
venivano devoluti al seminario di Sora per sostenere i molti
adolescenti, che qui si dedicavano agli studi umanistici e alla musica.
Lodando questa pia e raccomandabile opera, il reverendo convisitatore
concludeva la sua relazione.
Nella seconda sacra visita, avvenuta nel maggio 1642, tre anni dopo, si
dava mandato agli amministratori del seminario di Sora, da cui
continuava a dipendere la chiesa della Madonna, di provvedere allo
spostamento dell’altare maggiore verso la parete di fondo e di ampliarne
lo spazio di un palmo; inoltre di asportare o di disfare i due
altari posticci, situati in detta chiesa; di riparare la parete nella
parte posteriore del tempio; di togliere la legna posta sui travi
di detta chiesa ed infine di provvedere del necessario l’altare, di
porvi i candelieri e di mettervi a disposizione uno sgabelletto.
Pertanto in tale epoca esistevano all’interno della chiesa di Canneto
tre altari, uno centrale (l’altare maggiore ), che in quell’occasione
mancava di parte dell’arredamento essenziale per celebrarvi, e due
laterali, che dovevano essere rimossi, tutti situati nella parete di
fondo, priva di abside, e corrispondenti rispettivamente alle tre
navate.
La parete di fondo non era altro che il muro perimetrale, posto ad est,
della navata trasversale o transetto, costruita ai tempi dell’abate d.
Federico de Mamlion e resterà così fino alla nostra epoca. L’abside o
costruzione semicircolare di questa parte terminale della chiesa, alle
spalle dell’altare maggiore, sorgerà solo recentemente con i lavori di
prolungamento dell’edificio sacro, avvenuti nel periodo 1951-1957.
Negli anni, di cui stiamo parlando (1639-1642), all’altare di centro era
sistemata la cappella della Madonna, come confermerà meglio la
testimonianza del 1693, di cui in seguito.
Dai due documenti in esame apprendiamo anche che al seminario di Sora, a
cui spettava tutta la rendita del beneficio di Canneto per l’alto scopo
educativo e formativo indicato, toccava pure l’onere di provvedere alla
manutenzione e al funzionamento della chiesa della Madonna, al vitto ai
presbiteri e al personale laico nei due giorni della festa e alla
confezione dei panicelli da distribuire al popolo.
Ma, poiché la rendita annuale era appena sufficiente al mantenimento
degli alunni e delle scuole del pio istituto, i responsabili del
seminario demandavano questo compito di preparare il vitto e i panicelli
per i due giorni della festa ai fittuari del1e terre del santuario, come
risulta dai vari contratti di fitto, che si rinnovavano periodicamente e
che vanno dal 1677 al 1830.
Intanto va qui ricordato che nei documenti che andiamo esaminando e in
quelli che prenderemo in considerazione, atteso lo scopo specifico della
presente ricerca storica, privilegiamo le notizie relative agli aspetti
strutturali ed amministrativi della chiesa di Canneto, non omettendo
però di fare un cenno anche alle altre notizie ivi contenute,
specie se sono di grande importanza per la storia del nostro santuario,
come quelle che rinveniamo nei due documenti in parola, soprattutto nel
primo, in quello del 1639, più ricco di particolari, dove troviamo i
primi accenni storici di alcune tradizioni e consuetudini plurisecolari
di Canneto, quali il giorno della festa della Madonna, la processione
delle reliquie della vigilia, l’esistenza di una cappella esterna
dell’Annunziata e la distribuzione dei panicelli.
a) Il giorno della festa.
Era ed è rimasto per sempre il 22 agosto, ottava dell’Assunta. Nella
lettera collettiva del 25 novembre 1475 dei due cardinali romani,
Bartolomeo di S. Clemente e Giuliano di S. Pietro in Vincoli, il futuro
papa Giulio II, il 22 agosto era uno dei cinque giorni nei quali
si poteva visitare la chiesa di Canneto per lucrare l’indulgenza di 100
giorni: l’Assunta, l’Ottava, la Natività di Maria, la Natività di S.
Giovanni Battista e la Dedicazione della chiesa.
Ma, con il passare del tempo, quattro di quelle ricorrenze, l’una
dopo l’altra, decaddero e nel luglio 1639, quando è datato il primo
documento in esame, era rimasta unicamente l’ottava dell’Assunta. Se si
considera poi che tale giorno festivo appare fin dal novembre 1475 nella
lettera collettiva delle indulgenze, non è illogico pensare che il 22
agosto fin dai tempi della lettera era divenuto la festa primaria della
Madonna di Canneto.
Aggiungo che per la storia e la devozione mariana del santuario di
Canneto l’ottava dell’Assunta era e rimane di grande interesse anche
sotto l’aspetto teologico-liturgico ed iconografico, perché nell’ambito
della solennità del ferragosto è nato e si è gradualmente sviluppato il
culto della Madonna Bruna e il suo vetusto simulacro dovette essere in
origine la statua dell’Assunta, che poi, dal luogo dove era posta la sua
chiesa, si cominciò a chiamare Madonna di Canneto.
b) La processione delle reliquie
Si svolgeva il 21 agosto, alla vigilia della festa, da Settefrati a
Canneto.Era "una lodevole e antica consuetudine", come scriveva
l’arciprete Cardelli, la quale pertanto aveva le sue origini in epoche
anteriori al 1639. Queste reliquie erano ovviamente quelle, che fino al
1574, come si ricorderà, si trovavano nella chiesa di Canneto, e che
all’epoca del vescovo di Sora Giovannelli, intorno al 1618, erano state
traslate e custodite nell’arcipretura di Settefrati sotto l’altare del
patrono S. Stefano.
Nello stesso giorno e parimenti di buon mattino una processione del
tutto simile a quella di Settefrati muoveva nel versante opposto del
Melfa dal limitrofo paese di Picinisco, alla volta di Canneto. Erano i
canonici della collegiata di S. Lorenzo, che, seguiti da un popolo
festante, portavano quassù le reliquie dei santi in dotazione di quella
insigne chiesa. Erano due popoli vicini in esultanza, testimoni entrambi
da sempre delle epifanie mariane di Canneto.
A motivo della presenza di tante reliquie e di tanto popolo, il 21
agosto a Canneto divenne esso stesso un giorno di festa, che fu
chiamato: "Festa delle reliquie". Come manifestazione esterna veniva
organizzata dai pastori, i quali d’estate stanziavano su quelle montagne
e ne sostenevano le spese, offrendo abbondantemente i prodotti squisiti
dei loro greggi.
Tale festa, frutto dei buoni rapporti, che intercorrevano tra i due
popoli vicini, si continuò a celebrare per quasi un secolo, poi per
malintesi e gelosie facili a sorgere, specie in quei tempi, tra paesi
limitrofi, decadde e sopravvisse solo a Picinisco nell’ambito di quella
parrocchia. Qui il 21 agosto di ogni anno, nella solennità delle feste
patronali, a ricordo degli antichi fasti di Canneto, si celebra ancora
la "Festa delle reliquie".
c) La cappella dell’Annunziata. Un nuovo pellegrinaggio il 25
marzo
La chiesa di Canneto per l’accorrere sempre più numeroso di pellegrini,
si era rivelata con il tempo ognor più inadeguata a contenere le folle
dei fedeli, specie nel giorno della festa, cosicché gran parte di
questi, per poter partecipare ai riti religiosi, dovevano accontentarsi
di restare sul piazzale antistante, che per giunta in quelle epoche
lontane era ancora ingombro di spuntoni di rocce, che riducevano molto
gli spazi utili per sostarvi.
Di qui la necessità di costruire sul sagrato, al largo, a margine della
faggeta dirimpetto, una cappella, dove la folla accorsa, pur restando
all’esterno della chiesa grande, potesse agevolmente ("ob populi
commodum"), partecipare alla Messa solenne della festività ed accostarsi
all’Eucaristia.
Il tempietto fu dedicato all’Annunziata, sia come omaggio a un titolo
mariano che in quell’epoca era dovunque "in auge" (in quei tempi sorsero
chiese o cappelle con tale denominazione anche in alcuni paesi di Val
Comino, a cominciare dalla coeva chiesa parrocchiale della SS.
Annunziata di Villa Latina), sia come frutto di un nuovo pellegrinaggio
a Canneto, oltre quello del 22 agosto, che si svolgeva il 25 marzo di
ogni anno, il quale doveva preesistere alla data stessa del 1639 e che
in seguito si sviluppò e sopravvisse fino all’epoca della prima guerra
mondiale.
d) I panicelli
La distribuzione dei panicelli a Canneto in occasione della festa della
Madonna il 22 agosto, che troviamo documentata per la prima volta nel
1639, doveva essere un’usanza molto antica e di origine benedettina,
risalente cioè al periodo in cui quassù, ad officiare la chiesa di S.
Maria di Canneto, si trovavano i monaci cassinesi, vale a dire dal 1288
al 1569, quando il patrimonio fondiario del santuario passò di nuovo
dalla giurisdizione di Montecassino a quella della diocesi di Sora e fu
unito dal vescovo Mons.Gigli al seminario sorano.
Difatti nella "Terra di S. Benedetto" la curia cassinese doveva dare un
panicello ("unum panicellum") ai fittuari che a Natale, a Pasqua o nella
ricorrenza di S. Benedetto portavano puntualmente i vari donativi (uova,
polli, ciambelle, parti di animali uccisi ed altro del genere), dovuti
all’abbazia per l’uso di terre ad essa appartenenti. Ne rinveniamo un
cenno fin da uno strumento del 26 novembre 1270.
A Canneto l’usanza dei panicelli, a mio avviso, voleva essere, in questo
stile benedettino, un piccolo "presente" o "grazie" dell’amministrazione
del santuario per le tante offerte, che in molti modi i fedeli facevano
alla chiesa della Madonna, a sostegno dell’opera del santuario. Una
catena di generosità, che non è venuta mai meno nei secoli e che dura
ancora oggi.
12. Pellegrinaggi a Canneto dal limitrofo paese di
Picinisco (1639-1665). Nasce il culto di S. Anna
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Picinisco è l’ultimo paese, che s’incontra sull’itinerario di Canneto,
prima di affrontare le asperità dell’alta montagna e raggiungere la meta
agognata, per le compagnie o processioni di devoti, che nel ferragosto
di ogni anno provengono a piedi dalle pianure del basso Liri, dal
Cassinate e dall’entroterra montuoso delle Mainarde, conservando una
delle più antiche e predilette tradizioni del santuario, appunto il
pellegrinaggio a piedi.
Un popolo, come quello di Picinisco, che fin dalla notte dei
tempi conosce i fasti della chiesa di Canneto, ma anche i disagi di un
luogo così singolare per altitudine, isolamento e variabilità di clima
con conseguenti e ricorrenti problemi di manutenzione, di rinnovamento e
di ricettività degli edifici sacri per le moltitudini di devoti che vi
accorrono, ebbe nei tempi il suo proprio pellegrinaggio parrocchiale al
santuario e una sua particolare devozione alla Madonna Bruna e alla sua
diletta madre, S. Anna.
Il pellegrinaggio parrocchiale risulta storicamente e quindi con
certezza dal 1639 in poi. Le testimonianze in merito ci provengono tutte
dall’archivio della chiesa di S. Lorenzo del paese e più esattamente dai
registri del collegio dei canonici di quell’insigne collegiata.
Ho detto che il primo pellegrinaggio a Canneto risulta nel 1639.
Difatti per tale processione il capitolo della chiesa ricevette
dai sindaci del luogo ("i sindaci della Terra") un compenso di 10
carlini da ripartirsi tra i singoli canonici, che avevano partecipato
personalmente a quel rito penitenziale ai piedi della SS.ma Vergine. Una
manifestazione di fede e di penitenza: ecco che cos’era allora e deve
rimanere per sempre un pellegrinaggio a un santuario.
Un nuovo pellegrinaggio a Canneto da Picinisco è attestato il 10 agosto
1642 con un compenso di 10 carlini dati dalla medesima autorità civile
ai canonici partecipanti. Due altre processioni, sempre promosse dai
sindaci, si ebbero nel 1645.
Nel novembre 1660 i sindaci del paese versarono al capitolo della
collegiata la somma di 20 carlini, sia per incoraggiare i canonici a
prender parte a un pellegrinaggio a Canneto, sia perché essi, qui
giunti, vi celebrassero una Messa in onore di S. Anna. Questa volta il
compenso ai capitolari era stato raddoppiato per il duplice scopo della
partecipazione alla processione a piedi e della celebrazione della
Messa. È questo il primo accenno storico che si rinviene sul culto di S.
Anna nella chiesa di Canneto. Ci tornerò subito appresso.
Il 4 maggio e il 10 agosto l662 sono annotati altri due pellegrinaggi a
Canneto. Il 9 maggio dell’anno successivo, ad istanza dei sindaci,
veniva recitata nella chiesa parrocchiale di Picinisco una litania alla
Madonna di Canneto.
Edificante questa preghiera pubblica fatta dal popolo del luogo alla
Madonna Bruna nella sua propria chiesa parrocchiale: era un atto di fede
salda e sicura nella potenza d’intercessione della Madre di Dio,
dovunque la si invocasse!
Nel 1665 si trovano registrati altri tre pellegrinaggi al santuario.
Anche questi, come tutti o quasi tutti gli altri, erano promossi "ad
istanza dei sindaci" o, che era lo stesso, "ad istanza della
Terra". Gli scopi specifici per cui essi si effettuavano non risultano
annotati, ma con ogni evidenza erano processioni penitenziali fatte per
necessità pubbliche, come quelle di ottenere la pioggia o la serenità
del cielo oppure per scongiurare delle calamità incombenti, come le
carestie e i terremoti.
In quanto all’indicazione della meta troviamo scritto: "S. Maria di
Candita" o "di Candito", come ci aveva già segnalato fin dal 1574 lo
storico Giulio Prudenzio di Alvito: un’alterazione del toponimo
originario.
Riguardo al culto di S. Anna, quella Messa da celebrarsi in suo onore a
Canneto nel novembre 1660 durante il pellegrinaggio parrocchiale di
Picinisco prova nella maniera più ovvia e più semplice che nel santuario
esisteva già una devozione particolare alla madre di Maria, che si
sviluppava accanto e nella gran luce di quella assai più antica e
profonda, che i fedeli nutrivano verso la Madre di Dio.
In seguito tale devozione particolare crebbe a tal punto che la stessa
ricorrenza liturgica di S. Anna del 26 luglio divenne un’a1tra festa
tipica del santuario di Canneto con pellegrinaggio proprio, che si
aggiunse ai cinque tradizionali giorni delle celebrazioni mariane del
ferragosto. Festa e pellegrinaggio, che durano ancora oggi.
Nel santuario di Canneto S. Anna, a motivo della sua tardiva maternità,
è invocata particolarmente dalle giovani spose, che aspettano invano il
frutto del loro amore o da quelle che, avendolo ottenuto, alimentano la
speranza di un lieto parto.
13. Lascito testamentario di d. Giovanni Macari di
Settefrati (25 settembre 1656). Copertura a scandole della chiesa. Il
primo eremita
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Il 25 settembre 1656 d. Giovanni Macari di Settefrati, con testamento
olografo, firmato da cinque testimoni, scriveva le sue ultime volontà
circa la destinazione da dare ai suoi beni dopo la sua morte. Tra
le sue disposizioni spiccava il lascito fatto alla chiesa di S. Maria di
Canneto,
che iniziava con la rituale formula: "Parimenti lascio alla
Madonna di Candeto (sic!) …".
Lasciava otto appezzamenti di terra in gran parte aratoria, siti in
territorio di Settefrati in diverse località: a Guado Sambuco o S.
Angelo, alla Botte, alla Strasinara, alla Grotta di Chesa e
a Colle
Zappitto, alle seguenti condizioni: 1) che dette terre passassero in
proprietà della chiesa di Canneto il giorno immediatamente susseguente
alla sua morte; 2) il fittuario di tali beni consegnasse ogni
anno "una misura di scandole" per il tetto della citata chiesa; 3) dal
momento che la chiesa della Madonna aveva il suo eremita, che era capace
di fare le scandole e lavorare le terre donate, si affidassero a lui
tutti e due i compiti, relativi alle scandole e alla coltivazione; 4)
qualora l’eremita non accettasse la proposta, si doveva interessare di
tali questioni e risolverle positivamente
l’ultimo sacerdote di
Settefrati, che aveva fatto gli studi nel seminario di Sora.
Dopo appena due anni il generoso testatore passò a miglior vita e
pertanto il 23 dicembre 1658 il notaio Bartolomeo Riccardo di Sora diede
esecuzione al
suo testamento e in particolare al lascito fatto alla
Madonna di Canneto.
Il documento è inedito e tra l’altro ci fa conoscere due notizie di
rilievo riguardanti la chiesa di Canneto. La prima è che nel 1656 il
tetto dell’edificio sacro appariva coperto a scandole, cioè di sottili
tavolette di legno, atte per costruzioni d’alta quota. Una notizia
questa che tocca direttamente il tema generale della presente ricerca
storica.
La seconda è che fin dal detto anno la dimora alpestre della Vergine
Bruna teneva il suo eremita. Una bella notizia, che fino ad oggi non
risultava. Il primo eremita finora conosciuto era Domenico Gizzi di
Settefrati (1691).
In merito alla parola "scandola", oggi pressoché sconosciuta, il grande
dizionario italiano Garzanti spiega: "sottile tavoletta di legno usata
per la copertura di tetto in zona di montagna". Siamo al caso della
chiesa di S. Maria di Canneto. Il fittuario delle otto terre lasciate
alla Madonna da d. Macari doveva fornire ogni anno un certo quantitativo
di scandole o tavolette. È difficile oggi quantificare quell’ "una
misura di scandole", che lui doveva dare annualmente.
L’eremita di Canneto del 1656, quantunque non ne conosciamo il nome,
sapeva tuttavia fare le scandole o tavolette e lavorare la terra.
Ma suo compito precipuo era quello di attendere e custodire la chiesa
della Madonna, soprattutto nei lunghi inverni, e di segnalare ogni
necessità o inconveniente, che là si verificasse, prima all’arciprete di
Settefrati, dal quale direttamente dipendeva e, tramite questo, ai
superiori del seminario di Sora, che amministravano il grande beneficio
di Canneto.
Ma già in quell’epoca e molto di più nelle epoche successive, anche
alcune altre insigni chiese isolate e fuori degli abitati, come S. Maria
del Campo di Alvito e S. Maria di Picinisco, per volontà dei vescovi
diocesani, avevano il loro eremita.
14.
La chiesa di Canneto nell’ultimo scorcio del sec.
XVII: il nuovo tetto a canali e la nuova nicchia alla Madonna
(1691-1695)
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Il 31 marzo 1691 gli amministratori del seminario di Sora, a cui
spettava il diritto di disporre, come meglio ritenevano, delle terre di
S. Maria di Canneto, con specifico contratto agrario affidavano per
quattro anni dette terre a tre nuovi locatari di Settefrati: Giovanni
Malizia, Giambattista Sacco e d. Rocco di Preta, con l’obbligo di
corrispondere ogni anno al venerabile istituto sorano 146 tomoli di buon
grano.
Inoltre detti fittuari entro tale tempo dovevano a proprie spese
acquistare mille canali e, d’accordo con l’eremita di allora Domenico
Gizzi, farli trasportare a Canneto e sistemare adeguatamente sulle
tettoie del santuario. Quello del marzo 1691 era in ordine di tempo il
quarto contratto agrario, che i superiori del seminario
stipulavano, a partire dall’aprile 1677, come ricorda il vecchio
"Polsario riguardante i beni appartenenti al seminario di Sora
1675-1733", conservato ancora presso l’archivio del pio istituto.
Nel contratto del 1691 per i nuovi fittuari mancava l’obbligo di
confezionare i panicelli per le feste della Madonna, poiché essi in quei
quattro anni erano già oberati dal maggiore onere di procurare quei
tanti canali, di farli trasportare sul luogo e di porli in opera.
Sostituendo le scandole con i canali o coppi, posizionati a file
verticali alterne di dritto e rovescio, la direzione della chiesa di
Canneto optava per un nuovo tipo di copertura, che sarebbe durato fino
ai nostri tempi. Per impedire ai vortici dei venti, che quassù sono
assai forti, di sollevare i coppi posti all’estremità inferiori, al
limite delle gronde, questi erano tenuti fermi da uno o due filari di
sassi, che in seguito divennero la caratteristica di simili costruzioni.
Per due secoli e mezzo a Canneto, per le particolari condizioni del
luogo, non si pensò ad altro genere di tetto. Il nuovo sistema di
copertura dei sacri edifici sostanzialmente teneva.
Ma nel 1937 solo per la chiesa fu realizzata una copertura ad eternit
con lastre ondulate e bullonate ai sottostanti listelli di legno, che
durò salda e compatta fino al settembre 1978, quando venne demolito il
vecchio santuario. Era il tetto-tipo che ci voleva per una costruzione,
come quella della chiesa della Madonna, situata a quell’altezza ed
esposta a tutte le escursioni termiche e ai venti impetuosi della valle.
Nel 1693 Cristoforo Bartolomucci, facoltoso cittadino di Picinisco, per
grazia ricevuta, faceva scolpire a sue spese un’artistica nicchia di
pietra colorata ed intarsiata alla Madonna di Canneto, posta sull’altare
centrale ed incavata nella parete di fondo della chiesa con in alto la
scritta del suo donatore e dell’anno.
Il magnifico lavoro è rimasto fino ai nostri giorni ed è scomparso nel
1951, quando fu abbattuta la parete di fondo per la realizzazione della
nuova abside, secondo il progetto dell’ing. Umberto Terenzio di
Settefrati.
L’opera dimostra che la crociera della chiesa, ovvero l’aula grande
trasversale nella quale si aprivano le tre navate, nel sec. XVII
esisteva già. È questa una notizia di non poco conto dal momento che su
tale consistente corpo di fabbrica, che segnò il primo vero
ingrandimento e prolungamento della chiesa di Canneto, nelle mie
ricerche presso gli archivi non si rinviene traccia alcuna.
Esso, come già rilevato, dovette essere aggiunto alla piccola primitiva
chiesa a tre navate all’epoca dell’abate d. Federico de Mamlion (
...1530-1533).
15. Visite pastorali nel maggio 1707 e 1710: i primi
cenni storici della statua della Madonna di Canneto (1707)
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Il 12 e 13 maggio 1707 il vescovo di Sora, Mons. Matteo Gagliano,
recatosi in sacra visita a Settefrati, visitava le seguenti chiese ed
opere pie: S. Stefano, S. Maria della Tribuna, S. Felicita e SS. Sette
Fratelli, S. Maria delle Grazie e l’ospedale parrocchiale. La chiesa di
S. Nicola era diruta da molti anni.
Per un sopralluogo all’alpestre chiesa di S. Maria di Canneto il presule
delegò il canonico d. Pietro Abbondio Battiloro di Arpino, suo
convisitatore. La relazione, che costui stese dopo la sua andata e
ritorno da Canneto e che fu acclusa agli atti della sacra visita del
1707, ci riferisce quanto segue:
L’incaricato vescovile, accompagnato da alcuni presbiteri e cittadini di
Settefrati, si avviò a dorso di mulo verso la chiesa della Beata Vergine
di Canneto, situata in territorio di Settefrati tra alti monti e
distante dall’abitato circa cinque miglia. Il cammino fu assai
disagevole, perché dovette svolgersi per sentieri ripidi e scoscesi.
Raggiunta la chiesa, egli fece una breve preghiera dinanzi all’altare
maggiore, dove era esposta l’antica statua ("antiquum simulacrum") della
Beata Vergine Maria, ed assunto i paramenti sacri, celebrò la Messa.
Terminata questa, egli diede subito inizio alla visita di quel luogo
sacro. La chiesa predetta era unita al seminario di Sora e non aveva
oneri di alcun genere.
Nell’ottava dell’Assunzione ricorreva la festa di quella Beata Vergine,
alla quale da ogni parte confluiva una grande moltitudine di gente e
partecipavano anche l’arciprete e gli altri ecclesiastici di Settefrati,
per celebrarvi la Messa con i primi e i secondi Vespri.
Poiché l’altare maggiore, dove aveva celebrato, si trovava privo del
necessario arredamento, diede mandato di provvederlo di sei candelieri,
di pari numero di vasi di fiori, di due mappe, di croce più decente, di
carteglorie, di lavabo e di pallio sul davanti. In quanto ai due altari
laterali ivi esistenti, dove a quanto si diceva non si era mai
celebrato, ingiunse di dotarli di tutto l’indispensabile per la Messa e
di dare ad essi una sistemazione più conveniente, anche se non dovevano
servire per la celebrazione.
Le pareti esterne dell’edificio sacro, a sinistra dell’ingresso, essendo
pericolanti, dovevano essere rafforzate quanto prima possibile, per
evitare un ulteriore deterioramento delle medesime con la
sopraelevazione del muro già iniziato all’angolo esterno, da farsi a
spese del seminario nel termine di un anno, pena la sospensione dei
frutti del beneficio di Canneto annesso al pio istituto. Dentro lo
stesso tempo si doveva porre l’inferriata a una finestra della chiesa.
Il sacello dell’Annunziata, situato presso il tempio, rimaneva sospeso
da qualunque funzione, specie nel giorno della festa, quando vi si
celebrava, alla presenza della folla ivi accorsa, perché ridotto a uno
stato di pericolo e di indecenza. Poiché il sacro luogo mancava di un
custode ed eremita, il convisitatore faceva obbligo a chi di dovere di
provvederlo per la cura e la custodia di esso.
In questo ragguaglio del canonico Battiloro di Arpino troviamo un quadro
abbastanza chiaro e soddisfacente di Canneto e della sua chiesa
all’inizio del sec. XVIII. Veniamo a sapere un po’ di tutto, relativo
alla chiesa, al suo interno, agli altari, all’arredamento, al
pellegrinaggio, alla festa, alla statua della Madonna ed anche al
sacello dell’Annunziata antistante sul piazzale.
La chiesa era quella stessa del passato: a tre navate con crociera e tre
altari sul fondo. Non c’erano novità rispetto a quella che già
conosciamo, anzi aveva bisogno di un muro di sostegno esterno
alla parete di sinistra, che era pericolante. Sull’altare centrale,
l’altare maggiore, troneggiava l’antica statua della Madonna.
È questa la notizia più importante di tutta la relazione. È il primo
cenno all’esistenza nel santuario della celebre scultura in legno della
Madonna che ho rinvenuto, ed è pertanto da considerarsi il nuovo
"terminus a quo" storico del simulacro che risulta di appena tre anni
anteriore al precedente, che fino ad oggi era stabilito al l710, quando
è datato un altro documento dell’archivio diocesano, di cui subito
appresso.
Tuttavia, come già precisavo nel mio volume sul santuario di Canneto
(1969), attesi i tratti stilistici che restano dopo maldestre
manomissioni avvenute nel tempo, nonché i pareri di esperti d’arte, la
statua di Canneto ci riporta a un’epoca assai più antica della data
storica qui segnalata, con le seguenti caratteristiche: "Scultura lignea
del sec. XIII-XIV, bizantineggiante, madonna molto popolare,
probabilmente lavoro artigianale abruzzese. Come si vede, ci troviamo di
fronte non ad una poderosa creazione del genio, ma ad una pudica e
ingenua madonna della figurativa popolare" (Il Santuario di Canneto...,
pp. 259-260).
Tre anni dopo, il 9 e 10 maggio 1710, il vescovo Mons. Gagliano tornava
ancora una volta in visita pastorale a Settefrati. Tra le chiese
visitate figura anche quella di S. Maria di Canneto. Per il sopralluogo
alla chiesa alpestre anche in questa occasione lui delegò il suo
convisitatore, che era d. Nicola Celli, abate curato di Posta Fibreno.
L’incaricato vescovile, fatta la visita, riferiva l’esito del suo
viaggio. Egli scrive come a dorso di mulo si era portato a quella chiesa
attraverso una via ripida e malagevole, che si inerpicava tra monti alti
e boscosi e come, qui giunto, fatta una breve preghiera all’altare
maggiore, dove si trovava il vetusto simulacro ("vetustum simulacrum")
della Vergine, aveva iniziato a fare la sua visita.
La prima constatazione che egli fece fu quella di trovare la chiesa del
tutto negletta e che i decreti della precedente sacra visita non erano
stati eseguiti. Per tale ragione dichiarò interdetta la chiesa e tale
doveva rimanere fintanto che non fossero stati realizzati i seguenti
lavori: consolidare le pareti esterne, a sinistra di chi entrava,
divenute pericolanti; restaurare o, se fosse il caso, rinnovare la
statua della Madonna; provvedere la cappella della Vergine di tutto il
necessario per celebrare la Messa; costruire un soffitto in tutto il
corpo della chiesa; intonacare ed imbiancare tutte le pareti; rimettere
a nuovo il pavimento, che in alcuni punti appariva sconnesso, e munire
di inferriate le finestre inferiori.
Rimaneva interdetto anche il vicino sacello dell’Annunziata, già sospeso
nelle precedenti visite pastorali, a causa della sua decadenza e
pericolosità, che di anno in anno si facevano più gravi. Lavori, questi,
di non lieve entità, che erano a totale carico del seminario di Sora.
Per la verità storica va qui detto senza remore e reticenze che in
quelle epoche, come risulta da questo decreto di sacra visita e da
qualche altro precedente, la manutenzione ordinaria del santuario, che
era affidata al pio istituto sorano, era assai carente e che alle
cospicue rendite del beneficio di Canneto, di cui esso godeva, non
rispondeva un adeguato interessamento e una vigile premura per la chiesa
della Madonna.
Tra i lavori da eseguirsi due hanno particolare attinenza con il tema di
questa ricerca: il soffitto da farsi e la sistemazione delle
finestre inferiori. La chiesa nella sua parte interna era tutta o quasi
tutta sotto tetto, cioè priva di soffitti. È un aspetto dell’interno,
che scopriamo qui per la prima volta. Più esattamente, le parti del
tempio che si trovavano in queste condizioni, dovevano essere la navata
centrale e il transetto o crociera.
Le navette laterali non ne avevano bisogno, perché al di sopra di esse
d. Federico de Mamlion, come si ricorderà, aveva costruito diverse
stanzette.
In quanto alle finestre inferiori ("in fenestris inferioribus"), cioè
poste in basso, alla portata di tutti, e perciò da munirsi di
inferriate, esse dovevano trovarsi nelle due navette laterali, una o due
per parte, a dar luce alle medesime, poi, nei successivi restauri,
scomparse.
In ultimo, il documento del 1710 ci parla esplicitamente del "vetusto
simulacro" della Madonna, che, atteso il suo stato di deterioramento,
aveva urgentemente bisogno di essere restaurato o addirittura rinnovato.
Fu scelto ovviamente il restauro.
Il lavoro, in applicazione del decreto di sacra visita, dovette essere
effettuato in quegli anni, perché in seguito non se ne rinviene più
cenno. Ma quello fu uno dei tanti interventi maldestri, che il gruppo
ligneo di Canneto ebbe a subire durante i secoli e che a poco a poco
alterarono irrimediabilmente la tipologia originaria dell’antica
scultura.
16.
La chiesa di S. Maria di Canneto menzionata nella
monumentale opera storica del Gattola di Montecassino (1734)
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Nel 1733 e 1734 Erasmo Gattola, celebre prefetto dell’archivio
dell’abbazia di Montecassino, per i tipi di Sebastiano Coleti di Venezia
pubblicava la sua monumentale opera "Historia Abbatiae Cassinensis" in
quattro volumi. Nelle sue "Accessiones" (1734), nel descrivere le
sorgenti del Melfa, che erompono ai piedi di una rupe scoscesa, ricorda
anche il santuario, posto in quella valle, rilevando che tali sorgenti
si trovano presso la chiesa di S. Maria di Canneto sui monti Appennini
in territorio di Settefrati.
Citando poi il Tauleri, storico di Atina, ricorda ancora che Francesco
Visdomini, segretario dell’em.mo cardinale di Como, Tolomeo Gallio
(nell’ultimo scorcio del sec. XVI) in una lettera pubblicata su un suo
volume esalta la bellezza di quell’angolo della Valle di Canneto, dove
un fiume sgorga di sotto a un grosso masso, nonché la preziosità di
quelle acque gelide e limpide, come ebbe a constatare lui stesso,
immergendovi le mani per "pigliare di quelle arene d’oro", che qui si
vedono, giusto quanto sostiene Ippocrate, il quale asserisce che "una
delle prime condizioni dell’acqua buona è la freschezza".
Il Gattola, citando sempre il Tauleri, conclude la sua descrizione sulla
bontà delle acque del Melfa, affermando che il dottor fisico
Giambattista Mella di Atina, già nel 1586, quando discusse e pubblicò a
Roma i suoi "Teoremati e Problemati", aveva parlato della
"praestantissima et perfectissima aqua" di questo fiume, che –
meraviglia! – trae con sé scagliette di minerale d’oro, senza accennare
alle sue caratteristiche e alle ottime trote, di cui è ricca.
17. Pellegrinaggi di Picinisco a Canneto per
pubbliche necessità dal 1726 al 1755
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Il popolo di Picinisco, da sempre profondamente devoto della Madonna di
Canneto, anche durante il sec. XVIII, come già in quello precedente,
giusto quanto abbiamo riferito nell’ultima puntata, salì, in spirito di
penitenza e di totale fiducia nella Madre di Dio, al suo alpestre
santuario a1lo scopo di implorare dalla Vergine aiuti speciali per
superare emergenze o scongiurare pubbliche calamità.
Anche di queste visite straordinarie si rinviene una traccia storica
significativa nei manoscritti dell’archivio parrocchiale di Picinisco.
Le processioni a S. Maria di Canneto pure in questo secolo, come in
quello precedente, risultano promosse, nella maggior parte dei casi, dai
sindaci del paese ed avvennero con frequenza maggiore di quelle del
secolo passato ed erano motivate da pubbliche necessità o calamità
espressamente annotate: per implorare cioè dalla Madonna Bruna, spesso,
la pioggia o i1 buon tempo, più raramente (grazie a Dio!) la cessazione
di un terremoto.
Così, in quanto ai promotori o patrocinatori di dette processioni,
troviamo annotate queste espressioni: "ad istanza dei sindaci" oppure
"ad istanza dell’Università", "domandata in dono" ovvero "processione a
Canneto donata", alludendo a qualche nobildonna del luogo, che aveva
messo a disposizione una generosa offerta per un piccolo compenso ai
canonici partecipanti.
Difatti tali pellegrinaggi erano tutti presenziati dai canonici della
collegiata di S. Lorenzo, che ricevevano dall’ "Universitas" locale (il
Comune) alcuni carlini a testa, se intervenivano. Di qui l’annotazione
esplicita degli assenti.
La documentazione va dal 1726 al 1755. Nell’arco di 29 anni avvennero
ben 42 processioni penitenziali straordinarie alla Madonna di Canneto.
Nella lunga enumerazione manca più di qualche anno, mentre in alcuni
anni se ne svolsero due, come nel 1729 e 1735, oppure tre, come nel 1738
e 1739. Né mancò il caso che se ne effettuassero diverse in un solo
mese; così nel giugno 1742 ne troviamo annotate quattro, i giorni 3, 6,
12 e 19 del mese. A1cune considerazioni
1- È questa una pagina, che al di là dell’aridità dei numeri e delle
scadenze, costituisce una testimonianza inequivocabile dell’amore e
della riconoscenza che il popolo di Picinisco ha sempre nutrito verso la
Madonna di Canneto;
2- Il documento prova che tra quei fedeli e la Madre di Dio, venerata in
quel santuario, esisteva un rapporto privilegiato di devozione e di
fiducia illimitata al punto che nelle calamità incombenti o da far
cessare, essi non conoscevano altra immagine a cui rivolgersi o altra
chiesa, dove recarsi per essere certamente esauditi, che quelle di
Canneto;
3- Quei 42 pellegrinaggi penitenziali su menzionati non furono dei fatti
esclusivamente religiosi, ma anche eventi di carattere civile e sociale,
poiché coinvolsero ogni volta tutta la comunità cittadina nelle sue tre
principali componenti: il popolo, il clero e i sindaci del luogo, i
quali ultimi, come rappresentanti di tutta l’ "Universitas" e dei suoi
più importanti interessi, ne furono anche i promotori e i sostenitori
con la distribuzione di piccoli compensi ai canonici della collegiata,
che vi partecipavano;
4- Questo insieme di fatti evidenzia tra l’altro che al santuario di
Canneto, oltre a un pellegrinaggio di massa, che vi affluiva nei giorni
delle feste di agosto, esisteva anche un pellegrinaggio parrocchiale
feriale, completamente sconosciuto alle fonti storiche primarie
dell’archivio diocesano; difatti non ne rinveniamo traccia alcuna.
18. Nel gennaio 1749 gran parte del patrimonio
fondiario di S. Maria di Canneto era situato in territorio di
Settefrati.
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Nel registro n. 1502 "Apprezzi e squarciafogli" dell’archivio di Stato
di Napoli, in data 2 gennaio 1749, in territorio di Settefrati, troviamo
ubicati n. 67 appezzamenti di terra, appartenenti alla Cappella di S.
Maria di Canneto ("S. Maria di Canneti"). Tali beni assommavano a n. 144
tomoli ed erano situati in n. 44 località rurali (microtoponimi) del
paese.
Le località, che avevano più di un appezzamento, erano: la Cappella (n.
7 fondi), Campogrande (n. 3), Fonticella di magra (n. 5), Fonte di S.
Giorgio (n. 2), Renaro (n. 2), Campitello (n. 3), Varuncio (n. 3),
Fonticarri (n. 2) e lo Grano (n. 2). Le altre erano zone con una sola
possessione. Alcune tra queste erano località storiche, come Fontana,
Fonte S. Giorgio, Casafirma, La Canala, Fonte della Rocca, Acqua Santa.
Mi soffermo solo su tre di esse.
A Fonte S. Giorgio in epoca presaracena (881) sorgeva la prima chiesa di
Settefrati, denominata S. Giorgio, che era una dipendenza dell’abbazia
di S. Vincenzo al Volturno. A La Canala nel 1392, per motivi climatici e
di maggiore sicurezza, si erano trasferiti definitivamente i monaci
benedettini di Canneto e vi facevano vita comune.
Alla Rocca di Settefrati (oggi Valico Don Bosco), a quota m. 1191
s.l.m., alle spalle del monumento al Santo della gioventù, va
localizzata, ormai con certezza storica, l’omonima Rocca delle nuore,
detta in seguito Rocca delle quattro nuore, una fortezza cominese fino
ad oggi introvabile, sorta nella seconda metà del sec. XII e distrutta
nel 1435 dalle milizie aragonesi, capitanate dal conte Riccio da
Montechiaro.
Secondo l’inventario in oggetto, nel 1749, il patrimonio fondiario di S.
Maria di Canneto, nella quasi totalità della sua consistenza ed
estensione, era posto nel territorio di Settefrati, così come era già
avvenuto nell’agosto del 1619, quando è datato il primo inventario
storico di quella chiesa, del quale si è succintamente parlato nel
Bollettino del Santuario n. 5 (p. 20).
Ho detto "quasi", poiché in quell’epoca, secondo il catasto onciario del
1747 del Comune di Picinisco, quattro possessioni appartenenti alla
"Cappella della Madonna di Canneto", consistenti in terreni e "piedi di
olive", si rinvenivano in quattro siti diversi anche nel territorio di
questo paese limitrofo.
Di fronte a codesto imponente e vasto patrimonio terriero, che il popolo
di Settefrati ha creato nei secoli in segno di amore e di riconoscenza
alla Madonna di Canneto, noi devoti da sempre di tanta Madre non
possiamo non rimanere stupefatti ed edificati, nonché non sentirci
fortemente incitati al bene e alla generosità dall’esempio di un grande
popolo, come quello di Settefrati, per secoli profondamente innamorato
della SS. Vergine di Canneto.
19. Relazioni dei vescovi sorani alla S. Congregazione
("Ad limina") nella seconda metà del sec. XVIII. La prima notizia della
chiesa di S. Michele Arcangelo di Pietrafitta (1751).
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Il 29 maggio 1751, il vescovo di Sora dell’epoca, Mons. Correale,
relazionando brevemente alla S. Congregazione del Concilio sullo stato
delle chiese di Settefrati (appena 24 righe), dopo aver fatto cenno alle
chiese del paese: S. Stefano, S. Nicola, S. Maria della Tribuna e S.
Maria delle Grazie, menzionava due chiese, che si trovavano all’estremo
nord e all’estremo sud del territorio settefratese: rispettivamente S.
Maria di Canneto e S. Michele Arcangelo di Pietrafitta.
La prima, riferiva il presule, distava tre miglia dal centro abitato,
era posta in una valle, circondata da altissimi monti, presso le
sorgenti del fiume Melfa; risultava di non indecente struttura e, per
quanto riguardava la suppellettile sacra necessaria per la celebrazione
della Messa, essa veniva portata da Settefrati, specie nel giorno della
festa, che ricorreva nel mese di agosto. Dipendeva dal seminario di
Sora, al quale stava unita.
La seconda, la chiesa di S. Michele Arcangelo, si presentava ben
strutturata ed abbellita, era stata edificata da poco ("recens
edificata") per comodità del popolo, che abitava nella campagna in
casolari sparsi. Attesa la sua recente costruzione, la data del 29
maggio 1751 credo sia da ritenersi la prima notizia storica del tempio.
La magnifica chiesa esiste ancora ed è divenuta parrocchiale. Dopo il
sisma del maggio 1984, che l’aveva gravemente danneggiata, è stata
artisticamente restaurata e per i suoi nuovi stucchi, le sue pitture nel
soffitto e la sua illuminazione elettrica, nonché per il suo antico
organo a canne, ripristinato nel corrente anno e del tutto simile a
quello che si trovava nella vecchia chiesa di Canneto, andato
completamente in disuso nell’immediato dopoguerra, è divenuta più
splendida che mai. Per tutto questo, una chiesa da visitarsi.
Un’altra relazione "ad limina", nella quale si rinviene un cenno anche
alla chiesa di Canneto, risulta quella del 29 gennaio 1776. Nel
documento, Mons. Sisto y Britto, vescovo diocesano dell’epoca, dopo aver
parlato succintamente delle altre chiese di Settefrati, affermava che la
chiesa di S. Maria di Canneto distava dal paese tre miglia, era posta
presso le sorgenti del Melfa ed apparteneva al seminario di Sora.
Nella successiva ed ultima relazione "ad limina", che conosciamo, datata
il 20 febbraio 1802, il nuovo vescovo di Sora, Mons. Colaianni, parlando
di Settefrati, in merito alla medesima chiesa faceva gli stessi
rilevamenti del suo immediato predecessore sulla distanza,
sull’ubicazione e sulla dipendenza dal seminario sorano.
Ma il detto presule, negli atti delle sue due visite pastorali
effettuate a Settefrati all’inizio del sec. XIX (ossia nel giugno 1800 e
nel settembre 1805), come meglio sarà precisato in seguito, pur
ripetendo i medesimi dati di cui sopra, aggiunge qualche breve, ma
interessante notizia riguardante direttamente il tema generale di questa
ricerca storica.
20. Rinvenimento dell’ex-voto alla dea Mefite (1786).
Opinioni contrastanti sul sito del ritrovamento.
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Si tratta della ben nota colonnina in calcare locale con l’epigrafe
dedicatoria in caratteri onciali alla dea Mefite (sec. I d.C.),
conservata nel santuario di Canneto. L’iscrizione testualmente dice:
"Numerio Satrio Stabilione, liberto di Numerio, e Publio Pomponio
Salvio, liberto di Pomponio, fecero dono a Mefite".
Erano due liberti, appartenenti rispettivamente alla "gens Satria" e
alla "gens Pomponia", che in ringraziamento a quella divinità fecero il
loro dono, consistente nella colonnina con l’iscrizione dedicatoria e
con sovrapposta la statuetta della dea. Mefite, divinità italica, era
invocata per la fecondità dei campi e degli animali e per la fertilità
muliebre.
Il suo culto, non di rado, era strettamente connesso, come nel nostro
caso, con un bacino d’acqua dolce e più spesso con una sorgente
sulfurea. Tale deità era venerata in varie parti d’Italia, come a
Potenza, Grumento, Rocca S. Felice, Roma, Cremona e Lodi. Tracce di tale
culto si rinvengono anche in località a noi vicine e familiari: a
Casalattico, a sud di Val Comino e, in forme più rilevanti, nella città
di Aquino.
Ma il santuario di Mefite più famoso dell’antichità era in Irpinia a
Mirabella Eclano nella Valle di Ansanto, sublimemente celebrato da
Virgilio (Eneide VII, 563 sgg.). Qui in sovrapposizione e in antitesi a
tale culto si è affermato nel tempo il culto di S. Felicita, mentre
nella Valle di Canneto per le medesime ragioni è sorto prima il culto
della Beata Vergine, poi poco più lontano, quello di S. Felicita in due
località del medesimo paese: a Settefrati centro e a Pietrafitta, dove
si trova una cappella alla martire con uno sgorgo d’acqua sul davanti,
detta "Acqua santa".
In quanto alla colonnina dell’ex-voto di Canneto, secondo le mie ultime
ricerche sulla dibattuta questione del sito del ritrovamento, il primo
scrittore di Val Comino, che ne parla, risulta il poeta Rocco Soave di
Atina.
Costui, pubblicando a Napoli nel 1786 il suo poemetto intitolato "Il
Canneto", che aveva lo scopo di richiamare l’attenzione e
l’interessamento del re Ferdinando IV sulle miniere di ferro del monte
Meta, scoperte in quegli anni, fa un cenno per la prima volta a questo
importante reperto archeologico.
Difatti in una nota del "canto primo" (pp. 21-22 n. 12) egli afferma che
detta lapide con la dedica alla dea Mefite, anni prima, era venuta alla
luce ai piedi di un monte vicino ad Atina e che allora si trovava presso
la sua abitazione.
Invece, poco più di un decennio dopo, il Pistilli (1798) dava notizia
che la colonnina era stata dissotterrata a Canneto nel luogo dove sorge
la chiesa, avallando in tal modo l’ipotesi di un tempio alla dea Mefite,
ivi preesistente. Poco tempo dopo, anche il Giustiniani (1805)
confermava il suo ritrovamento a Canneto nel sito anzidetto.
Il Mommsen (1883) vide il reperto negli orti dei fratelli Visocchi di
Atina e lo recensì nel suo "Corpus Inscriptionum" (CIL X 5047). Pertanto
il sito del suo rinvenimento rimane incerto ed assai discusso. Quello
che è certo è che l’ex-voto di Mefite da tutto, o quasi, il secolo
scorso si trova a Canneto.
Ai nostri giorni, anche se nei recenti scavi per le fondazioni del nuovo
santuario non sono affiorati resti di qualche insediamento sacro
pre-cristiano, il deposito votivo rinvenuto nel 1958 alle sorgenti del
Melfa, a poca distanza dalla chiesa della Madonna, in occasione delle
opere di captazione delle acque del fiume, testimonia inconfutabilmente,
grazie soprattutto alla datazione delle monete ivi rinvenute,
l’esistenza a pochi metri di profondità di un santuario italico-romano
risalente al sec. IV-II a.C., assai frequentato in tale epoca e con
condizioni di culto affini a quelle della dea Mefite.
21. La reale Ferriera di Canneto (1780-1850)
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Fu un avvenimento, che ebbe nell’epoca una vasta risonanza, e pertanto,
pur se non riguarda direttamente la presente ricerca, credo assai
opportuno darne un breve ragguaglio.
Tra la seconda metà del sec. XVIII e la prima metà del secolo seguente
la Valle di Canneto con tutta la regione montana, che va da Settefrati a
Picinisco, a S. Donato V.C., Alvito e Campoli, fu al centro
dell’interesse del Governo Borbonico di Napoli per lo sfruttamento
industriale dei giacimenti limonitici o di sesquiossido di ferro idrato,
di cui sono ricche dette montagne.
La scoperta del minerale, come riferisce il dott. Serafino Orlandi di
Picinisco, medico delle maestranze addette alla fonderia di Canneto, nel
suo manoscritto (1831), che si conserva ancora, avvenne fortuitamente ad
opera di due suoi concittadini, che andavano raccogliendo erbe
medicinali e che riportarono in paese alcuni piccoli campioni del
minerale.
La notizia giunse ben presto alla regia corte di Napoli, che inviò sul
posto vari esperti siderotecnici delle Reali Ferriere di Mongiana in
Calabria, il maggiore dei quali era l’architetto Mario Gioffredo, con lo
scopo di verificare in loco la fondatezza della preziosa informazione,
di eseguire i primi saggi sulla fusione del minerale in vista di un
razionale sfruttamento a conto dello Stato.
I risultati dei vari sopralluoghi furono positivi e promettenti,
soprattutto perché nella valle di Canneto si rinvenivano insieme, in uno
spazio relativamente ristretto, le tre condizioni essenziali per far
funzionare bene e stabilmente una ferriera: il minerale, di cui
abbondavano quelle montagne; la forza motrice, che poteva provenire
dalla caduta naturale delle acque del Melfa, e il combustibile
derivante, come da fonte inesauribile, dalle fitte boscaglie
circostanti.
Nel giro di qualche anno, al lato sud del poggio sul quale è posta la
chiesa della Madonna, su progetto dell’architetto Gioffredo, sorse lo
stabilimento siderurgico di Canneto. Nella realizzazione dell’opera il
progettista, come annota il citato Orlandi nella sua memoria scritta,
riutilizzò le mura superstiti dell’antico monastero benedettino ivi
situato.
La ferriera, che comprendeva un impianto di prima fusione ed impianti di
raffinazione, anche con la collaborazione e competenza di abili
artiglieri, fatti venire da Mongiana in Calabria a Canneto, iniziò a
produrre sia ferro dolce per usi civili, sia proiettili di artiglieria
ed altri manufatti di fusione.
Ma poi, intrighi, interessi, gelosie e sabotaggi costrinsero la reale
Ferriera di Canneto, prima a sospendere la produzione, poi a chiudere i
battenti. Nel 1798 il complesso siderurgico era già in rovina e non si
trovò chi lo volesse acquistare. Nel 1852 da parte del Governo Borbonico
ci fu un tentativo di riattivare la magona di Canneto con l’invio di
commissioni di esperti sul posto.
Ma negli anni seguenti a Rosanisco, in territorio di Atina, sorgeva una
nuova ferriera più accessibile e moderna di quella di Canneto. Poi nel
1860 con la conquista del Regno di Napoli e con la caduta del regime
borbonico non solo fu chiusa anche questa nuova fonderia, ma decadde
ogni progetto di industrializzazione del Mezzogiorno d’Italia.
A Canneto, al lato sud della chiesa, tra la fitta vegetazione, sono
ancora visibili i ruderi dell’antica regia magona.
22. Nel 1805: una costruzione a Canneto destinata ai
soldati ("in statione militum")
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Il 9 giugno 1800 il vescovo di Sora Mons. Colaianni, nell’ambito della
sua visita pastorale a Settefrati, si recava di persona a Canneto. Il
documento, che ricorda il sopralluogo, contiene brevi annotazioni sulla
chiesa, che già conosciamo dalle ultime visite pastorali qui riferite.
In quanto all’interno del tempio il presule ingiungeva di ritinteggiarlo
di bianco e di riparare il pavimento.
Nella susseguente S. Visita del 25 settembre 1805 a Settefrati il
medesimo vescovo, per Canneto, delegava il suo convisitatore d. Ignazio
Carnevale, il quale si recò sul posto insieme all’arciprete d. Celestino
Vitti e l’abate d. Aniceto Venturini di Settefrati. Il convisitatore
nella sua relazione dava mandato, tra l’altro, di "chiudere le finestre
aperte nel posto di guardia e di riaprire gli archi che erano stati
chiusi".
Mi chiedo dove, nelle vicinanze del santuario, potesse trovarsi questo
posto di guardia ("in statione militum") "con finestre aperte da
chiudersi e con archi rimurati da riaprirsi".
Si trattava evidentemente di una costruzione, diversa e separata dalla
chiesa con più di qualche stanza al pianoterra, ricavata dalla chiusura
degli archi e con relative finestre. Gli archi dovevano essere almeno
due con volte in pietra, che fungevano da solai per almeno altre due
stanze al primo piano, come avveniva ed avviene ancora per il portico
antistante alla chiesa, formato appunto da archi, volte in pietra e
stanze soprastanti.
Ora una costruzione del genere, che qui accertiamo per la prima volta,
non poteva trovarsi che nel medesimo sito dove nel 1891-94 sorse il
nuovo Ricovero dei pellegrini.
Il primitivo manufatto, che già esisteva da anni ("archi rimurati"),
dovette servire al distaccamento dei soldati zappatori-minatori, addetti
all’estrazione della limonite nel primo periodo di funzionamento della
locale regia magona (1780-1799).
All’epoca dell’erezione del citato Ricovero (1891-94) detto manufatto
dovette essere demolito, se non proprio inglobato nella nuova
costruzione.
23. La chiesa di Canneto nei primi decenni del sec.
XIX
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Nel 1809 la "Cappella di S. Maria di Canneto" in Settefrati, iscritta al
trasporto art. 74 del vecchio catasto della provincia di Frosinone,
aveva in carico la seguente consistenza catastale:
Classe I: tomoli 86, canne 26. Classe II: tomoli 54, canne 187. Classe
III: tomoli 25, canne 25. Totale: tomoli: 166, canne 28. Le terre erano
ubicate in territorio di Settefrati in 43 località rurali
(microtoponimi), alcune delle quali con vari appezzamenti, come Cappella
e Piano (con 5 fondi) oppure Canala, Vallepecorina e Crognoli (con 4
fondi).
I toponimi sacri di S. Giorgio, Colle S. Angelo e S. Pancrazio, che
figurano tra le suddette località rurali, erano sopravvivenze di nomi di
antichissime chiese della campagna settefratese: la prima, S. Giorgio,
di origine alto-medioevale (881c.), dipendenza volturnense; la seconda,
S. Angelo (1137), cella benedettina cassinese del Basso Medioevo, e la
terza, S. Pancrazio (1539), allora beneficio semplice, unito alla chiesa
parrocchiale dei SS. Settefratelli.
II 13 maggio 1821, Domenica terza dopo Pasqua, il vescovo di Sora
dell’epoca, Mons. Lucibello, effettuava la sua visita pastorale a
Settefrati. Nell’ambito di questa sua venuta nel paese non mancò di
visitare anche l’alpestre santuario della Vergine. Però non risulta
chiaramente se vi si recò di persona o delegò a questo scopo il suo
convisitatore.
Nel decreto di sacra visita, in riferimento a Canneto vengono annotati i
consueti rilievi sulla distanza del tempio da Settefrati centro,
sull’appartenenza del relativo beneficio al seminario di Sora e
sull’obbligo, da parte di questo pio istituto, della manutenzione della
chiesa.
Alcuni anni dopo, alla data del 18 marzo 1830, nel "Polsario riguardante
i beni appartenenti al Seminario di Sora 1675-1733", conservato
nell’archivio del pio istituto, è trascritto l’ultimo atto notarile di
locazione triennale delle terre di Canneto prima dell’incameramento del
1877.
In quel giorno le proprietà venivano affittate all’arciprete d. Tommaso
Vitti, d. Severino Vitti e Michele de Vecchis di Settefrati, i quali
dovevano corrispondere annualmente al seminario 205 tomoli di grano ed
altri 5 per la confezione delle panicelle, che venivano distribuite al
santuario nei giorni della festa.
Il seminario a sua volta, era tenuto, come sempre, a curare la
manutenzione del sacro edificio, il culto divino e la suppellettile:
obblighi, che il pio istituto mantenne anche dopo la confisca dei beni
di Canneto fino ai nostri giorni. Le terre suddette erano localizzate in
gran parte nel territorio di Settefrati, ma anche in quelli di
Picinisco, Gallinaro e S. Donato V.C.
24. La prima notizia storica dei 5 giorni della festa
(18-22 agosto 1831)
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Ne rinveniamo un breve, ma significativo accenno nel già citato
manoscritto (1831) di Serafino Orlando di Picinisco, che era medico
degli operai della ferriera di Canneto nel suo primo periodo di
attività.
Alle sorgenti del Melfa, si legge nel documento, vi è un’antica chiesa
con una Madonna nera, uso orientale, dove accorrono migliaia di fedeli
tra il 18 e il 22 agosto.
Da questa laconica, ma importante testimonianza scritta deduciamo che il
pellegrinaggio a Canneto in occasione della festa della Madonna del 22
agosto era notevolmente cresciuto al punto che non bastavano più due
giorni, quelli della vigilia e della festa, finora conosciuti, per
soddisfare le esigenze spirituali della massa dei devoti che vi
confluivano, ma ne occorrevano altri e questi non potevano essere che
quelli precedenti. Fu così che le tradizionali celebrazioni mariane del
ferragosto, già in uso da alcuni secoli, si vennero attestando su cinque
giorni di festa, dal 18 al 22 agosto, come avviene ancora nella nostra
epoca.
Nel 1831 tale consuetudine, come consta dal suddetto manoscritto, era
già acquisita e di lì a poco più di due decenni verrà consolidata
dall’uso di portare in processione, la mattina del 18 agosto, da
Settefrati a Canneto, l’immagine della Madonna bianca (ma dello stesso
titolo di quella bruna), che è in dotazione dell’arcipretura e di
riportarla in paese il 22 agosto a sera.
25.
Viaggio di un inglese a "Nostra Signora di
Canneto" nell’agosto 1846
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II diario, di cui do solo un breve ragguaglio, è tratto da un "Frammento
del viaggio di un inglese nel Regno di Napoli", che fu pubblicato nel
1846 nel secondo numero di "Poliorama pittoresco" della detta
città.
L’anonimo protagonista parla in prima persona, descrivendo ogni
particolare dei luoghi, che visita, e dei personaggi storici, che
rievoca, con proprietà di immagini e di linguaggio e con una padronanza
dei testi letterari latini tali da rivelarsi un vero umanista e un
forbito scrittore.
"Il viaggio d’un inglese nel Regno di Napoli", di cui quello a Canneto
era solo una parte, un "frammento", rientrava, a mio avviso, nello
spirito più genuino del romanticismo inglese dell’epoca, contrassegnato
dall’insoddisfazione del presente e dal bisogno di allontanarsi dalla
realtà circostante.
Figura emblematica di quest’ansia romantica di evadere era, nel mondo
culturale inglese, proprio George Byron, il poeta che il nostro anonimo
viaggiatore afferma di prediligere.
Il viaggio iniziò da Roma il 18 agosto. L’illustre visitatore prese la
via del Lazio Sud, dirigendosi verso Casamari, dove pervenne nella tarda
mattinata e vi sostò per tutta la giornata, ospite di quei buoni Padri.
Il luogo gli richiamava alla memoria le gesta di Caio Mario, nativo,
come il grande Cicerone, di quelle contrade, divenute perciò celebri.
Il giorno seguente, riprendendo di buon mattino il viaggio, si fermava
prima ad ammirare le famose cascate di Isola, che per la loro
imponenza il suo amico Byron avrebbe definito un "inferno d’acqua", poi
perveniva nella località di S. Domenico, dove decideva di fare sosta.
Qui alla confluenza del Fibreno con il Liri l’anonimo turista, con
l’ausilio del II libro "De legibus", che portava con sé, sperava di
poter trovare le vestigia della villa natale di Cicerone, ma con sua
grande delusione constatò che di questo celebre monumento dell’antichità
non restava alcuna traccia.
Mentre si trovava in un luogo così insigne e sacro, sentì risuonare nel
silenzio i canti di numerose compagnie di pellegrini, che provenivano
dal vicino Stato della Chiesa e che, come venne a sapere da una persona
anziana da lui interrogata, erano dirette al "famoso santuario della
nostra Signora di Canneto", distante dieci miglia da lì, la cui festa si
celebrava tra due giorni.
A quella lieta notizia egli non seppe resistere al desiderio di visitare
quella veneranda chiesa. Perciò, pernottato a Sora, città volsca, la
mattina del 20 agosto era di nuovo in cammino.
Transitò prima nelle vicinanze del Lago del Fibreno con "le sue isole
galleggianti" e le sue acque ricche di squisiti carpioni, quindi
attraversò la bella pianura di S. Maria del Campo, sulla quale dominava
dall’alto la città di Alvito, ed intorno a mezzogiorno rasentava "i
confini di Settefrati, patria del cassinese Alberico, il cui sogno
vogliono che servisse di prima idea alle opere immortali
dell’Alighieri".
La terza tappa del viaggio era a Picinisco, dove l’anonimo turista
giunse all’imbrunire. Qui egli rimase ammirato dalla bellezza dei
luoghi, dal carattere mite degli uomini e dal portamento modesto delle
donne. A sera fu ospite di una delle famiglie del paese. Lo stesso
capo-famiglia si offrì gentilmente a fargli da guida il giorno seguente
per il santuario di Canneto e per una escursione al monte Meta.
All’alba del 21 agosto il nostro visitatore insieme alla sua guida
iniziava l’ultima parte del suo viaggio in questa regione. Era il tratto
certamente più duro ed impegnativo del suo itinerario nel Sud, a causa
delle molteplici e svariate asperità dei monti.
La mulattiera, che in quell’epoca da Picinisco centro portava a Canneto,
prima scendeva agevolmente tra fitte boscaglie verso le sponde del Melfa
in direzione di Ponte Lanfranco, poi, qui giunta, iniziava a salire
sempre più ripida e scoscesa lungo il fiume fino al santuario.
Al detto ponte il pellegrino-scrittore incrociò e si unì alle numerose
compagnie di pellegrini, che allora provenivano direttamente dalle
pianure cominesi sottostanti, risalendo nel fondo-valle tutto il corso
del Melfa, senza passare e sostare nel paese, come avviene oggi.
"Ponte Lanfranco": è questo il vero nome del piccolo ponte, posto sul
Melfa a NE di Picinisco, e non "Ponte Lebranche", come si scrive anche
sulle carte geografiche ufficiali (F.o IGMI, 160, I, NE Villa Latina).
A Canneto l’illustre forestiero trovò aria di grande vigilia.Tutto era
infinitamente bello e suggestivo: l’ampio ed assolato pianoro, coronato
di alti monti ed irrigato dal Melfa, la chiesa, le compagnie in arrivo,
i pellegrini vestiti nei costumi più vari, la gente sparsa in ogni dove,
le baracche di frasca costruite in quei giorni, i fuochi che fumigavano
qua e là nella valle.
"Lo spettacolo gli faceva tornare in mente una di quelle feste
dell’antica Grecia, destinate a ricordare ai popoli di lontane regioni
la loro comune origine". Così avveniva in quei giorni a Canneto, per
ricordare a tutti di avere un Padre comune, che sta nei cieli, e una
medesima Madre, che è la Vergine Bruna, venerata lassù.
Nella sua visita alla chiesa l’esimio personaggio si esprime in questi
termini: "Il santuario in quell’ora era visitato dai pellegrini. Io vi
entrai tra la folla per vedere l’oggetto del loro culto, il quale era
un’antica statua della Vergine: semplice appariva la struttura del
tempio, ma le mura vedevansi ricoperte dei voti dei fedeli: i divini
offizi che allora vi si celebravano risvegliavano negli spettatori la
più commovente devozione".
II giorno seguente alle prime luci dell’alba il nostro ospite, sempre in
compagnia della sua guida, dopo aver trascorso la notte in una capanna
di pastori, si trovava, come in un nuovo "Olimpo", sul monte Meta a
godersi l’incomparabile spettacolo della visione dei due mari italiani,
il Tirreno e l’Adriatico: il Meta, la prestigiosa vetta, dove
(sono sue parole) "l’aquila, che al dire del suo Byron, cavalca le nubi,
volava in quel giorno ai suoi piedi". Un’immagine bellissima di quella
cima, che non ha l’eguale!
26. La chiesa e gli ex voto di Canneto nel 1846. Il
"sogno" di fra Alberico da Settefrati
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Nel suo diario or ora esposto in sintesi, l’anonimo turista inglese, tra
i particolari che egli mette in luce nell’ultima parte del suo viaggio
in Val Comino faceva cenno a tre temi che ci interessano direttamente:
la chiesa, gli ex voto del santuario e il "sogno" di fra Alberico da
Settefrati.
La chiesa. Al suo interno aveva una "struttura semplice", cioè dal
punto di vista architettonico e decorativo non evidenziava alcunché di
caratteristico, che potesse richiamare l’attenzione dell’illustre
visitatore.
Essa era ancora quella del ‘500, restaurata ed ampliata dal preposito
spagnolo d. Federico de Mamlion e che è stata ripetutamente descritta
nei precedenti Bollettini di Canneto: il nartece antistante con tre
archi, all’interno tre navate (le due laterali piccole e basse a motivo
delle stanze soprastanti), il transetto formato da un’aula grande, e la
cappella della Madonna.
L’unico punto di richiamo e motivo di interesse, che in quella mattinata
del 21 agosto suscitava negli animi dei pellegrini presenti nella chiesa
un forte fascino e una "commovente devozione", erano l’"antica statua
della Vergine" e i "divini uffizi", che vi si celebravano.
La vera novità nella "struttura" del sacro edificio, che doveva destare
la meraviglia e il plauso non solo dei pellegrini delle feste di agosto,
ma di tutti i devoti della Madonna Bruna sparsi dovunque nelle nostre
regioni, sarebbe avvenuta in quegli anni immediatamente susseguenti al
1846 con i lavori di consolidamento e di abbellimento della chiesa. Era
il terzo restauro storico, che finora conosciamo, del quale ovviamente
tratterò in seguito.
Gli ex voto. L’anonimo pellegrino-scrittore, dopo il suo ingresso
nella chiesa di Canneto, laconicamente annotava che "le mura vedevansi
coperte dei voti dei fedeli". È questa, in ordine di tempo, la
prima citazione storica dell’esistenza di una raccolta di oggetti votivi
nella chiesa di S. Maria di Canneto.
Una notizia, che ho ricercato assiduamente da sempre, sopratutto nelle
fonti storiche più appropriate e qualificate, quali sono quelle
dell’archivio storico diocesano di Sora, ma che ho rinvenuta, qualche
anno fa, solo e per la prima volta nel "Frammento del viaggio d’un
inglese nel Regno di Napoli".
È una annotazione molto tardiva rispetto alla storia plurisecolare del
santuario di Canneto (siamo nel 1846), tuttavia essa appare assai
importante e significativa, perché ci rivela una nuova forma o
espressione della pietà mariana del nostro popolo, dopo quelle del
pellegrinaggio, delle grandi donazioni terriere e delle offerte in
denaro e in natura per i restauri della chiesa, che si erano manifestate
ripetutamente nei secoli passati e che già conosciamo; tali nuove forme
o espressioni erano i doni-ricordo, che i devoti lasciavano in perpetuo
alla Vergine.
Gli ex voto del 1846 erano veri attestati di riconoscenza e di devozione
alla Madonna Bruna per grazie ricevute nelle varie circostanze, tristi e
liete, della vita, frutto della sua potente intercessione presso il suo
Figlio misericordioso. Erano mute preghiere di umili offerenti, che si
innalzavano continuamente alla Vergine per implorare protezione e
sostegno.
Gran parte di quei donativi sono giunti a noi; difatti fino al 1951-57,
epoca dei nuovi restauri e dell’ultimo prolungamento del santuario, ne
era tappezzata tutta la parete nord del transetto. Erano soprattutto
cuori d’argento, che però con il passare del tempo avevano perduto la
loro brillantezza originale, ma conservavano intatto il loro valore
simbolico di attestati di riconoscenza a Maria.
Nella preziosa raccolta figuravano anche apparecchi ortopedici in gesso
o in metallo e una decina di pregiate tavolette, raffiguranti episodi
miracolosi edificanti, le quali ora vengono custodite a parte.
L’odierna raccolta di ex voto nel santuario, rispetto a quella del 1846,
è cresciuta a dismisura, in numero e in qualità, ed è esposta in un
ampio locale della cripta della nuova chiesa, il quale appare ormai
insufficiente a contenere tutta la svariata gamma del materiale votivo.
Si tratta di miriadi di quadri, foto, vestiti, piccoli lavori
artigianali, iscrizioni e dediche.
Ma, nonostante tanta dovizia e varietà di oggetti, il loro significato
fondamentale e primordiale non è diverso da quello delle raccolte di ex
voto dei tempi passati. Infatti quell’insieme eterogeneo di doni-ricordo
costituiscono, oggi come ieri, una corale e perenne testimonianza
d’amore alla Madonna Bruna.
Il "sogno" di fra Alberico da Settefrati. L’anonimo viaggiatore,
venendo in visita in Val Comino, da persona dotta e nutrita di cultura
classica qual era, ci da la gradita sorpresa di essere a conoscenza
anche di tale "sogno".
Con un rapido accenno egli ci ricorda il fatto prodigioso, realmente
accaduto a Settefrati intorno al 1120, che ebbe una vasta risonanza in
Italia e in Europa, soprattutto negli ambienti monastici, grazie anche
all’abbazia di Montecassino, che diede veste letteraria al racconto
albericiano ed ampio spazio nel più famoso codice dell’archicenobio: il
"Chronicon" cassinese (IV 66).
II "sogno", meglio conosciuto sotto il titolo di "Visione di Alberico",
attesa tale risonanza, non dovette sfuggire all’attenzione di Dante
Alighieri, che anzi, come risulta da non pochi indizi, l’ebbe presente
nella composizione del divino poema.
Il fatto è assai noto e pertanto mi limito a darne qui una breve
sintesi, anche perché all’argomento e ad alcune questioni connesse ho
dedicato quasi un intero capitolo nella mia pubblicazione su "Settefrati
nel Medioevo di Val Comino" (1994, pp. 129-143), alla quale rimando
cortesemente il gentile lettore che volesse ottenere maggiori
informazioni sul tema.
Questa in breve la vicenda. All’età di 10 anni, come riferisce il "Chronicon"
cassinese, un fanciullo di nome Alberico, nativo di Settefrati, figlio
di un nobile cavaliere del luogo, fu colto da un grave malore, che ben
presto lo ridusse in fin di vita. Rimasto in coma 9 giorni, egli
ebbe in sogno una visione, nella quale vide e percorse i tre regni
dell’oltretomba sotto la guida dell’apostolo Pietro.
Ritornato in sé e guarito prodigiosamente, a seguito di quanto aveva
visto, specie al ricordo terrificante delle pene dell’Inferno, decise di
lasciare il mondo e di prendere l’abito benedettino. Entrato nel
monastero di Montecassino, vi condusse una vita così austera da
confermare con l’esempio delle sue virtù la veridicità di quanto aveva
visto.
La sua "Visione", che a grandi linee ha la stessa trama della Divina
Commedia ed è ad essa anteriore di quasi due secoli, viste le diverse
somiglianze tra l’una e l’altra nelle varie specie dei dannati, nella
natura delle pene e in tante similitudini, dovette essere una delle
fonti più autorevoli a cui il Divino Poeta s’ispirò nel trattare la
materia del suo capolavoro.
Una splendida pubblicazione su Alberico da Settefrati.
Il nuovo libro su "Alberico da Settefrati e la sua visione predantesca",
scritto dalla prof.ssa M. Antonietta Cedrone, anche lei nativa di
Settefrati e presentato il 20 agosto 2006 (a 160 anni esatti –lo stesso
giorno e mese– dal passaggio del viaggiatore inglese nelle nostre
contrade: una felice coincidenza!) ci offre la rara occasione di
approfondire il "sogno" di Alberico, di interpretarlo nella chiave
giusta e di meditare di più sulle verità eterne.
27. I restauri della Chiesa nel 1853. L’Epigrafe del
vecchio portale (1857).
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Nel 1854 su "Poliorama pittoresco" (vol. XV, pp. 106-107), edito a
Napoli, nella rubrica "Cose patrie" veniva pubblicato un articolo di
anonimo autore dal titolo: "La Festa di Nostra Signora di
Canneto dal 18 al 22 agosto 1853".
Lo scrittore, che per sincera modestia voleva rimanere incognito, ma che
per la conoscenza precisa che aveva dei luoghi e delle persone qui
menzionate, nonché per la devozione profonda che nutriva verso la Madre
di Dio, non riusciva a mimetizzarsi del tutto, doveva essere ovviamente
un colto e fervente cittadino di Settefrati e per giunta uno dei più
credenti e praticanti del capoluogo.
L’autore iniziava il suo pezzo letterario col ricordare che la chiesa di
S. Maria di Canneto si trovava nel territorio di Settefrati, un paese
assai conosciuto per aver dato i natali a fra Alberico, monaco
cassinese, poi passava a descrivere le bellezze della valle di Canneto,
quindi accennava alla chiesa restaurata e alla nuova campanella
istallata sul santuario, dono di re Ferdinando II, che con i suoi
rintocchi festosi rallegrava tutta la valle, infine indugiava ad
illustrare i due momenti più salienti della festa: l’arrivo dei
pellegrini a Canneto e il ritorno della processione a Settefrati.
Parlando della chiesa della Vergine, l’anonimo articolista testualmente
affermava: "Quel Tempio per l’innanzi corroso dalle ingiurie delle nevi
e degli aquiloni, ora restaurato per le solerti cure di quel Vicario
Curato D.L. Venturini, appare bello e maestoso con bell’ordine di
pilastri e di archi a tre navi; ma uno de’ più vaghi suoi ornamenti è
una piccola campana, attestato di devozione alla Vergine del cuore
religioso dell’augusto nostro sovrano, che ivi accogliesi tra le
benedizioni per le sue munificenze nel far rivivere in que’ luoghi le
antiche miniere di ferro".
Da queste brevi indicazioni deduciamo che:
1) Nel 1853 i restauri del tempio di Canneto erano già avvenuti e
completati e pertanto d’ora in poi sarà questa la nuova data storica di
quegli importanti lavori di riattamento e non quella del 1857, che
leggiamo sull’architrave del vecchio portale in pietra, ora ricomposto e
conservato nella cripta del santuario, come si era ritenuto fino ad
oggi. Il 1857 è più esattamente la data del portale e della sua posa in
opera, non del restauro;
2) Fino al 1853 la chiesa di Canneto, come risulta dalle brevi relazioni
delle sacre visite dei vescovi di Sora, qui riportate in testo o in
sintesi, era rimasta strutturalmente quella restaurata ed ampliata
dall’abate preposito spagnolo d. Federico de Manlion (...1530-1535): le
tre navate (le due laterali più piccole e basse) con l’aggiunta della
crociera nella chiesa e di varie stanzette al primo piano.
Questi importanti lavori, effettuati intorno alla metà del sec. XIX,
devono considerarsi i terzi grandi restauri storici del santuario. Essi
consistettero in opere sia di consolidamento, sia di abbellimento: nuovi
pilastri, archi, volte in pietra, cupoletta ovale centrale, cornicioni e
decorazioni in stucco, come meglio risulterà dalla relazione del 4
maggio 1874 dell’abate Loreto Terenzio di Settefrati in risposta al
questionario di sacra visita del vescovo De Niquesa di Sora.
Pertanto i tre grandi restauri in parola ebbero luogo nelle seguenti
epoche: nel 1475, nel 1530-1535 e nel 1853-1857;
3) La chiesa di S. Maria di Canneto, pur se dipendente
amministrativamente, fin dal giugno 1569, dal seminario di Sora, il
quale doveva provvedere in proprio alla sua manutenzione e a tutto
l’occorrente per il decoro del tempio, sia perché essa ricadeva nella
giurisdizione ecclesiastica e territoriale di Settefrati, sia per la sua
vicinanza al paese, era officiata dal clero locale, in particolare
dall’arciprete di S. Stefano, che aveva anche il titolo di vicario
curato di Canneto.
In quegli anni era arciprete e vicario curato d. Lorenzo Venturini, il
quale, preoccupato del pericoloso deteriorarsi delle strutture generali
dell’antico tempio a causa soprattutto degli agenti atmosferici (piogge,
nevi e venti), con il benestare e l’incitamento della direzione del
seminario di Sora, prese la coraggiosa iniziativa del restauro della
chiesa.
Il suo impegno, la sua tenacia e i suoi sacrifici, uniti come sempre a
quelli del grande e generoso popolo dei devoti di Canneto, furono
coronati da successo. Nel 1853 il nuovo santuario splendeva "bello e
maestoso" davanti agli occhi di tutti.
Alcuni anni dopo la sua morte, avvenuta a Settefrati il 29 agosto 1877,
i resti mortali del pio e zelante arciprete, a motivo del suo lungo
servizio al santuario, furono traslati ed inumati nella stessa chiesa di
Canneto, come ricordava una bella lapide marmorea in latino, posta al
lato sinistro della crociera ed ivi rimasta fino al 1978, quando ebbero
inizio le opere di ristrutturazione generale del sacro edificio;
4) Ma, per la verità storica, l’arciprete d. Lorenzo Venturini, pur
essendo promotore e il coordinatore del restauro del 1853, non ne fu
l’unico artefice. Difatti l’epigrafe in latino del 1857 del vecchio
portale menziona altri due protagonisti di quel grande evento: il popolo
di Settefrati e il re di Napoli Ferdinando II.
L’iscrizione tradotta in italiano così recita: "Questo tempio, che da
secoli, come si tramanda, è dedicato alla Madre di Dio, a motivo dei
miracoli ivi compiuti, minacciando ormai rovina a causa della sua
vetustà, fu ricostruito, così come si può vedere, grazie alla devozione
del popolo di Settefrati e alla munificenza del nostro piissimo re
Ferdinando II. Anno del Signore 1857".
Il popolo di Settefrati contribuì all’opera, prestando le sue giornate
lavorative, sia a livello di comune manualanza, anche femminile
(trasportatrici di pietre), sia a livello di mastri muratori per i vari
lavori, che il restauro richiedeva.
Il pio sovrano, officiato, pare, direttamente dall’eremita dell’epoca,
Marianna Ferrante, che si recò personalmente a Napoli, volle essere
presente alla grande opera con una sua sovvenzione di 300 ducati e, come
già notato, con l’invio in dono di una campanella, fusa nella regia
magona di Napoli e trasportata a sue spese a Canneto.
Ma il re Ferdinando II fu particolarmente sensibile e munifico non solo
verso il santuario di Canneto, ma anche verso la sua rinomata valle,
perché nel 1852, cioè in quegli stessi anni del restauro della chiesa di
Maria Vergine, dal suo real governo, attraverso accurate indagini
scientifiche condotte nella zona da esperti, fece riprendere in esame la
possibilità di uno sfruttamento più razionale e proficuo dei giacimenti
limonitici della valle, riattivando l’antica ferriera di Canneto.
A tale scopo furono inviati in questo nostro distretto minerario
l’ing.re Gaetano Tenore e il capitano d’artiglieria Melluso, vennero
migliorate le vie di accesso alla valle ed accanto alle vecchie mura di
detta ferriera furono creati altri locali per depositi vari. A tale
epoca (1856-1860) risale appunto la costruzione della strada
Bivio-Settefrati centro, a tutt’oggi trafficatissima per l’accesso al
santuario di Canneto.
Ma gli avvenimenti politici e patriottici del 1860, che, come si è già
riferito nel Bollettino n. 9 (pp. 26-27), portarono alla fine rovinosa
del regime borbonico, fecero decadere ogni progetto di
industrializzazione del Mezzogiorno d’Italia e di conseguenza ogni idea
e programma di riattivare la regia magona di Canneto, i cui ruderi sono
ancora visibili tra la fitta vegetazione, al lato sud della chiesa;
5) Anche il seminario di Sora, nonostante le sue particolari
ristrettezze economiche in cui versava, contribuì alle spese generali
del restauro con una consistente somma di ducati 258.50, rispettando in
tal modo i suoi secolari doveri morali verso il santuario, derivanti
dall’essere, fin dal lontano 1569, il principale beneficiario di tutte
le sue rendite. Esse, come si sa, per averlo detto più volte negli
articoli precedenti, servivano al sostentamento dei suoi alunni, i
futuri sacerdoti della diocesi, e alle altre ricorrenti necessità del
pio istituto.
A tale proposito il vescovo dell’epoca Mons. Montieri diede incarico a
d. Luigi Ferri, abate-parroco dell’insigne collegiata di S. Lorenzo di
Picinisco, di redigere un "memorandum" sull’obbligo che aveva il
seminario di Sora di far fronte con mezzi propri agli urgenti lavori di
restauro della chiesa di Canneto.
Il solerte abate stese un elaborato pro-memoria in cui illustrò "il
dovere che stringeva il Seminario Sorano, il quale si godeva (?) la
vistosa rendita del povero spogliato Santuario, di sostenere la spesa
del restauro e chiedeva che si fossero obbligati i riluttanti
amministratori del Seminario allo sborso di Ducati 258,50".
Attese le ragioni addotte dall’ecclesiastico di Picinisco, il vescovo
diede mandato all’amministrazione del seminario di erogare la somma
richiesta in favore della chiesa di Canneto. La relazione è riportata
dal Lauri nella sua monografia storica: "Settefrati ed il Santuario di
Canneto nella leggenda e nella storia (1910) (pp. 26-27);
6) Però anima e cuore di tutto il movimento del 1853 per il restaurando
tempio fu l’eremita Ferrante, che si portò di paese in paese a
sensibilizzare tutti i devoti della Madonna, raccogliendo ogni sorta di
offerte (derrate, denari e donativi in oro) per consolidare ed abbellire
la chiesa di Maria SS.ma.
Lo desumiamo anche da una rude iscrizione che lei incise di propria mano
sull’architrave della finestra centrale dell’antica facciata, rinvenuta
nel 1924 dal Marsella, che diceva così: "Gran Tempio fatto di elemosine
da me devota Eromita (sic!) Marianna Ferrante".
La pia donna era nata a Settefrati nel 1786 ed ivi il 5 maggio 1876, a
90 anni esatti di età, mentre era ancora eremita di Canneto, chiuse i
suoi giorni. L’anno preciso in cui fu chiamata a questo delicato ed
arduo incarico non risulta.
Nel 1853 era sicuramente eremita e lo era ancora nel 1874, quando
l’abate Terenzio di Settefrati, nella sua già citata relazione al
vescovo, scriveva di lei in termini edificanti: "È donna di ottima vita,
di zelo ardente verso la Vergine SS.ma e di amore ripiena per Lei che a
niun seconda. Ha raccolto dai devoti delle Vergine moltissimi donativi
in oro ed ha fornito quella Chiesa di sacri arredi".
28. Nel 1855 Mons. Montieri riduceva a due le
parrocchie di Settefrati e prendeva iniziative per una comunità
religiosa in paese anche per l’assistenza agli operai della ferriera di
Canneto.
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Fino alla metà del sec. XIX le parrocchie di Settefrati erano quattro:
S. Stefano con il titolo di arcipretura, i SS. Sette Fratelli, S. Maria
della Tribuna e S. Nicola, rispettivamente con i titoli di abbazia.
Le relative chiese erano situate tutte nel capoluogo in uno spazio
ristretto di poco più di un centinaio di metri quadrati e renderle
agibili tutte e quattro con interventi periodici di carattere
strutturale costituiva per ciascun parroco un problema, che diveniva
sempre più difficile risolvere a mano a mano che, a causa soprattutto di
epidemie e carestie, diminuivano la popolazione e i redditi di ogni
parrocchia.
Due di dette chiese, i SS. Sette Fratelli e S. Nicola, erano
staticamente più fragili delle altre al punto che per lungo tempo e non
una sola volta furono soltanto una rovina.
Tale situazione si verificò fin da tempi remoti e perciò i tre abati,
con il consenso del vescovo e d’intesa con l’arciprete, decisero di
funzionare tutti nella sola chiesa di S. Stefano, dove però ciascun
abate curava i propri fedeli. S’imponeva pertanto un riassetto generale
delle 4 parrocchie.
Fu così che Mons. Montieri con decreto del 7 novembre 1855 ridusse a due
le parrocchie di Settefrati, aggregando S. Nicola a S. Stefano e i SS.
Sette Fratelli a S. Maria della Tribuna, sotto l’unico titolo dei SS.
Sette Fratelli, titolari e protettori del paese. Parimenti divise in due
tutto il territorio comunale con una linea ideale che partiva dalle
sorgenti del Melfa, toccava la reale ferriera e si immetteva sulla via
per Settefrati, seguendo in tutto il suo tracciato ed assegnò la parte
superiore del viottolo all’arcipretura e la parte inferiore alla
nuova abbazia.
Così pure, giusta la documentazione posteriore esistente ancora
nell’archivio parrocchiale di Settefrati, nel capoluogo all’arcipretura
furono attribuiti: la parte superiore del Cornicione, Murorotto,
Fossaceca, Campo di fiori, Porta S. Domenico e Colle, mentre all’abbazia
andarono: la parte inferiore del Cornicione, Murorotto, la Porta,
Camporeale, Porta Pignatara, Campo di fiori, Porta S. Domenico e Colle.
Nelle zone rurali all’una toccarono: Canala, Vito, S. Pancrazio,
Ripagalassa fin sotto la mola Palmerino Marrazza, ultimo confine, mentre
all’altra: Canala, Lota, Virgilio, Soda Larga, S. Martino, Massarella e
Perilli.
Circa l’appartenenza della chiesa di Canneto all’una o all’altra
parrocchia il decreto del Montieri non diceva nulla di specifico, ma
tutto lasciava nel vago e ciò ovviamente dava subito adito alla
contestazione, per cui da parte di alcuni fedeli si sosteneva che il
santuario rientrava nel territorio della nuova parrocchia.
Ne sentiamo un’eco anche nella relazione del 1874 al vescovo
dell’arciprete d. Lorenzo Venturini, il quale al contrario asseriva che
detta chiesa era stata sempre una dipendenza dell’arcipretura e pertanto
tale doveva restare pure per il futuro, anche perché qui si custodiva la
statua dell’omonima Madonna, che si portava il 18-22 agosto a Canneto e
faceva capo il clero, che l’accompagnava in quei giorni al santuario e
che riceveva dall’arciprete una parte delle intenzioni di SS. Messe colà
raccolte.
Ma le polemiche e le contestazioni a questo riguardo non erano destinate
a spegnersi, perché ogni tanto nell’avvenire si sarebbero rinfocolate.
Però l’interesse di Mons. Montieri per Settefrati non si limitò a questo
saggio provvedimento di carattere amministrativo, ma nell’ottobre 1858
si volse anche a creare, attigua alla chiesa della Madonna delle Grazie,
una struttura, che potesse accogliere una comunità religiosa, atta ad
occuparsi del bene spirituale di quella popolazione. La costruzione
esisteva già, ma bisognava migliorarla.
La detta chiesa possedeva una rendita annua di 300 ducati, che era
amministrata da una "Congregazione laicale dipendente dal Consiglio
degli Ospizi". Il vescovo, allo scopo dì poter utilizzare la somma per
la realizzazione del suo progetto alla Madonna delle Grazie, chiese ed
ottenne ben presto il nulla osta del re, anche perché quella comunità
religiosa poteva servire all’assistenza spirituale dei "molti operai o
soldati addetti alla magona di Canneto", che di giorno in giorno stava
per rientrare in funzione, dopo una lunga pausa di oltre mezzo secolo di
inattività.
A tal fine il vescovo prese contatto con diversi istituti religiosi.
Dopo vari tentativi la proposta fu favorevolmente accettata dagli
Agostiniani della Riforma, detta di S. Giovanni a Carbonara di Napoli,
ma dopo qualche tempo essi mutarono parere.
Ma il presule, persistendo nel suo proposito di aprire una casa
religiosa a Settefrati, costituì una commissione che amministrasse le
rendite della chiesa della Madonna delle Grazie, impiegandole totalmente
alla costruzione e sistemazione dei locali annessi a detta chiesa; il
che avvenne fino al 1861, epoca non più propizia per queste iniziative
dello zelante pastore.
In quell’anno difatti il povero vescovo era fuggiasco da Sora, braccato
come un nemico dai Piemontesi giunti nella città, perché, all’entrata
delle truppe garibaldine a Napoli nel settembre 1860, non volle
consentire il canto del "Te Deum" nelle chiese della diocesi.
Egli riparò prima a Casamari e a Veroli, poi a Ferentino e infine a
Roma, dove nel novembre 1862, povero e solo, chiudeva i suoi giorni.
29. Il brigantaggio sulle montagne di Canneto
(1861-1870)
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Solo pochi accenni, poiché l’argomento non tocca direttamente il tema
della presente ricerca ed anche perché il brigantaggio del periodo
post-unitario nel Mezzogiorno d’Italia, al quale si ricollega quello
delle montagne di Canneto, è un argomento divenuto di attualità, in
quanto il fenomeno è oggi ampiamente studiato in convegni e in club
culturali ed è quindi ben conosciuto, sia nelle sue cause remote e
prossime, sia nelle sue varie fasi di sviluppo, ed inoltre è "onorato"
da pubblicazioni anche di notevole valore critico-storico.
Le montagne di Canneto, aduse per secoli al silenzio e care alla fede,
per ben nove anni, dal 1861 al 1870, risuonarono delle efferate gesta di
formazioni organizzate di malviventi e soprattutto del capo-brigante
Domenico Fuoco e della sua sanguinaria banda.
Tra gli anfratti e i dirupi delle balze del Meta e delle Mainarde quelle
masnade di fuorilegge trovarono sicuri nascondigli, dove mettevano a
punto i loro perversi piani d’azione e sorvegliavano le mosse delle
Forze dell’Ordine, messe sulle loro tracce, riuscendo in alcuni
conflitti a fuoco ad avere la meglio o nel peggiore dei casi a
dileguarsi nel nulla.
Di lì partivano le loro imprese di sangue: rapine, sequestri, ricatti,
estorsioni, omicidi e rappresaglie contro famiglie e centri abitati dei
tre versanti montani: laziale, abruzzese e campano. Tali formazioni
furono per vari anni un costante pericolo e terrore per le nostre valli.
Il banditismo trovò un valido appoggio soprattutto nei Borboni, che si
erano rifugiati a Roma, i quali per quasi due anni fornirono denari e
uomini alle brigate ribelli nella prospettiva di farne un esercito
legittimista, che li rinsediasse sul trono di Napoli.
Verso i fuorilegge in ogni paese non mancarono simpatizzanti,
manutengoli, ricettatori ed anche cittadini, che accorsero ad ingrossare
le file delle bande armate, i cui nomi e cognomi oggi si
conoscono bene per essere stati resi noti in più di qualche
pubblicazione. D’altronde la vita di briganti, a confronto con quella
misera e stentata del povero contadino meridionale, si presentava ricca
di attrattive. Molti nutrivano la segreta speranza di tentare il colpo
di fortuna per cambiare posizione sociale.
Il governo unitario, che vide nel brigantaggio una grave minaccia
all’unità della nazione da poco raggiunta, intervenne contro le bande
ribelli con largo spiegamento di forze (soldati, carabinieri e guardie
nazionali) e con ogni mezzo di repressione. La lotta contro il
banditismo fu lunga e difficile con perdite notevoli anche tra le file
dei reparti militari del nuovo Stato.
Ma poi, svanita a poco a poco la speranza di una restaurazione borbonica
e di un successo finale della guerriglia, le squadre
brigantesche, sempre più isolate sui monti nei loro nascondigli,
decimate dai continui scontri con le forze repressive o dalle ripetute
defezioni dei loro adepti, tradite dai manutengoli e dagli infiltrati,
non ebbero altra alternativa che quella di consegnarsi volontariamente
alla giustizia, come fecero alcuni capi e centinaia di
malviventi, oppure quella della lotta ad oltranza fino alla morte, come
decisero Domenico Fuoco e la sua banda.
Questi ultimi fuorilegge, che tenevano i loro covi sui monti del Meta
(oggi se ne conosce con esattezza anche l’ubicazione: si tratta di
una caverna sotterranea in territorio di Picinisco), spadroneggiarono
ancora per vari anni nella zona, compiendo ogni sorta di misfatti fino
al 17 agosto 1870 a notte, quando, colti da un sonno profondo a seguito
di un eccessivo stato di ubriachezza, furono trucidati da tre
ardimentosi contadini di Conca Casale, che in quei giorni, mentre
tornavano dalla fiera di Cervaro, erano caduti prigionieri nelle loro
mani.
I corpi straziati dei tre principali caporioni, prima tra tutti quello
di Domenico Fuoco, stettero esposti per tre giorni a Picinisco nel Parco
Montano, alla cosiddetta "Preta tonna" ("una pietra tonda" o macina da
mulino), a vista della popolazione, finalmente liberata, dopo anni,
dall’incubo del terrorismo e da ogni altro pericolo incombente.
Quello che meraviglia nella storia di questi malandrini delle montagne
di Canneto è che essi, in tanti anni in cui stettero annidati su quelle
alture, non commisero mai alcuna azione riprovevole contro la chiesa
della Vergine oppure contro le persone sacre ivi addette; né tesero mai,
a scopo di rapina o di ricatto, qualche imboscata alle moltitudini di
pellegrini, che vi convenivano.
Anzi un 22 agosto pomeriggio, in uno degli anni del brigantaggio,
anch’essi vollero rendere omaggio alla Madonna di Canneto, salutandola
dalle opposte cime con una scarica di colpi a salve delle loro carabine,
mentre la statua nella processione di ritorno a Settefrati usciva dal
santuario.
30. Confisca di tutti beni della Cappella di S. Maria
di Canneto e degli altri benefici della Diocesi uniti al Seminario di
Sora. Il pio Istituto ridotto al lastrico.
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Nel 1868, in applicazione delle leggi di incameramento del 7 luglio 1866
e del 15 agosto 1867, tutte le terre e gli altri beni appartenenti alla
Cappella di S. Maria di Canneto in Settefrati, uniti fin dal giugno 1569
al seminario di Sora, venivano confiscati dal demanio dello Stato e
successivamente venduti all’incanto.
Con le inique spoliazioni il pio istituto perdeva non solo il grande
patrimonio fondiario di Canneto, ma anche tutti gli altri beni immobili,
che esso, in tre secoli di vita e di formazione ecclesiastica, aveva
ricevuto nei vari paesi a seguito di lasciti e di donazioni dei fedeli;
un patrimonio immenso, che nel suo complesso costituiva la base
essenziale dei redditi destinati, sia al sostentamento degli alunni,
specialmente poveri e bisognosi, sia a sostegno dei corsi di studio per
la preparazione dei giovani al sacerdozio.
Tutto venne requisito. Il seminario era ridotto al lastrico. La perdita
era enorme ed aveva il carattere di una vera sciagura, che appariva
irreparabile e provocata di proposito dai governi unitati anticlericali
per spiantare per sempre l’istituzione diocesana, cara ai Padri del
Tridentino.
La situazione era resa più grave e drammatica dalle angustie in cui si
trovava in quegli anni la pia istituzione a causa dei soldati
piemontesi, che fin dal 1861 presidiavano Sora e che avevano occupato
tutto l’edificio, ragion per cui il seminario in quegli anni rimase
chiuso agli alunni e ai chierici. Soltanto dopo il 1865 esso
riprese a funzionare, ma solo parzialmente negli stretti e scomodi
locali dell’episcopio.
La sua vita interna tornò ai ritmi normali del passato solo nel 1872,
ma, a causa della grave situazione finanziaria determinatasi con le
spoliazioni, l’istituto era accessibile solo agli alunni, che potevano
pagare mensilmente la retta, mentre gli adolescenti poveri erano
ospitati all’ultimo piano dell’episcopio (detto "il coperchione"), però
frequentavano gratuitamente le scuole del seminario, ma ricevevano tutti
i giorni il vitto direttamente dalle loro famiglie.
Era questa una situazione umiliante, che in circostanze normali
avrebbe fatto poco onore al seminario, ma, per la ragione anzidetta,
essa si era resa necessaria. Una situazione di emergenza, che durò per
alcuni decenni. Più di qualche sacerdote, tra i più anziani del clero
diocesano, ricorda di essere stato, nei primi anni di seminario, "al
coperchione". Poi il pio istituto, sostenuto da tutta la diocesi,
riprese a funzionare regolarmente senza distinzione alcuna tra alunni di
famiglie benestanti e non benestanti.
31. La chiesa di Canneto dopo le spoliazioni del 1868.
Dalla relazione del 1874 dell’arciprete d. Lorenzo Venturini di
Settefrati
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Con le confische del 1868 la chiesa di S. Maria di Canneto, al pari di
altre chiese e conventi della diocesi di Sora, che subirono la medesima
sorte dell’espropriazione dei loro beni, si trovò improvvisamente priva
di ogni risorsa materiale e pertanto dovette continuare a confidare,
dopo che nella provvidenza divina, esclusivamente nella generosità dei
suoi devoti, che già l’avevano largamente ricompensata per aver devoluto
fin dal 1569 in favore del seminario di Sora le cospicue rendite annuali
del suo vasto patrimonio fondiario.
Erano offerte in denaro, in natura e in preziosi, che si ricevevano per
il santuario in occasione delle feste annuali di agosto e delle raccolte
stagionali del grano, delle uve e delle olive, ad opera soprattutto
delle zelanti eremite di Canneto, che in tali circostanze si portavano
di paese in paese a piedi o con mezzi di fortuna per raggruzzolare i
prodotti della terra e i donativi del buon cuore dei devoti.
Nei secoli scorsi da queste entrate incerte ed occasionali dei fedeli
sono provenuti i contributi principali per la manutenzione ordinaria e
per i restauri e gli ampliamenti del tempio di Maria. Così è ancora oggi
e si spera che sarà anche in futuro.
Circa la situazione, che si venne a creare nel santuario negli anni
immediatamente susseguenti alla confisca dei beni di Canneto, si trovano
alcuni accenni nella relazione del 1874 di d. Lorenzo Venturini,
arciprete di Settefrati, al vescovo di Sora, mons. Paolo de Niquesa.
Secondo quanto egli ci riferisce, le proprietà della Cappella di S
.Maria, passate nelle mani del demanio, erano iscritte nel "gran libro",
cioè nel "cosiddetto Debito Pubblico", però non si sapeva a quanto
ammontava la loro rendita annua.
Con la perdita dei beni di Canneto, dice il d. Venturini, il seminario
di Sora, privo ormai di ogni risorsa economica, era stato costretto a
sospendere il duplice impegno, che aveva mantenuto per tre secoli, cioè
quello di passare il vitto al clero durante i 5 giorni della festa e
quello di approntare i panicelli da distribuirsi in quell’occasione ai
pellegrini. Cessava anche l’uso di mantenere nel pio istituto "alcuni
alunni gratis di Settefrati".
Anche se la direzione del santuario rimaneva affidata al seminario di
Sora, la cura e l’amministrazione della chiesa mariana con il tempo
passarono totalmente nelle mani del clero locale. Il pio istituto dal
1861 in poi ebbe i suoi impellenti e gravi problemi da risolvere e
perciò il suo interessamento per il santuario diminuì notevolmente.
La Messa solenne del 22 agosto a Canneto, al culmine della festa, giusto
quanto riferisce il citato relatore, veniva celebrata dall’ "Arciprete
Capo e Rettore del Clero" locale. Il procuratore del capitolo di
Settefrati raccoglieva le elemosine delle Messe, ivi offerte, e le
distribuiva equamente a tutti i sacerdoti del luogo, che accompagnavano
la statua dell’arcipretura, sia nell’andata a Canneto, sia al ritorno in
paese.
Con tale stato di cose tanto nel culto quanto nelle feste della Madonna
di Canneto si accentuarono ovviamente alcuni aspetti devozionali
dell’arcipretura, come la processione al santuario e l’intronizzazione
della statua parrocchiale sull’altare centrale della chiesa mariana, al
punto da incidere sulla stessa iconografia ufficiale di Canneto mediante
la sostituzione dell’immagine originale con quella della parrocchia.
Solo dopo la prima guerra mondiale (1915-1918) i vescovi di Sora
ripresero decisamente l’iniziativa in favore della chiesa di Canneto per
farne gradualmente un santuario a livello diocesano di risonanza
inter-regionale.
32. La situazione edilizia e spirituale della chiesa
di Canneto nella relazione del 4 maggio 1874 dell’abate Loreto Terenzio
di Settefrati al vescovo di Sora
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In risposta "agli articoli dell’Istruzioni per la S. Visita" del vescovo
Paolo De Niquesa di Sora, d. Loreto Terenzio, abate di S. Maria della
Tribuna di Settefrati, in data 4 maggio 1874 relazionava sullo stato
della sua parrocchia evidenziando anche alcuni aspetti della vita del
santuario nella seconda metà del sec. XIX, che credo opportuno qui
riassumere con l’aggiunta di brevi commenti.
Nello scritto rinveniamo in particolare alcuni preziosi accenni alla
chiesa e ai locali annessi, alla devozione verso la Madonna, al modo di
entrare dei pellegrini nel tempio mariano, a due personaggi cari al
santuario di Canneto: re Ferdinando II di Napoli e l’eremita Ferrante, e
alle due statue della Madonna dello stesso titolo, ma di diverso colore,
che nei giorni della festa si trovavano insieme al santuario esposte
sugli altari.
1) La chiesa e i locali. L’edificio sacro era in tutto e nei
particolari quello restaurato nel 1853-1857 a tre navate (una grande al
centro e due piccole laterali) con volte in pietra, ornate a stucco e
con tre rispettive porte ed uscite sotto il portico frontale del tempio.
La porta centrale era più grande delle due laterali.
Aveva due altari, posti sulle pareti di fondo: l’uno di marmo al centro
con due gradini in basso e in alto una "nicchia di marmo a corinto fatta
e donata alla Vergine da Gregorio Bartolomucci di Picinisco", riservato
alla "gloriosa statua che da Settefrati nel dì 18 agosto si porta a
Canneto"; l’altro di stucco a destra con l’urna di legno di noce ben
lavorata a vetro sul davanti, la quale racchiude "la statua antica che
resta sempre in quella chiesa; urna fatta dai divoti di Maria SS.ma del
Comune di Roccasecca e di Caprile".
Invece la nicchia dell’altare centrale, come dice la medesima relazione,
era dono di Gregorio Bartolomucci di Picinisco. Ma reputo che qui debba
preferirsi la versione del Marsella, che vide bene l’iscrizione latina
con il nome esatto del benefattore e che recitava così: "Cristoforo
Bartolomucci di Picinisco. 1693".
Insisto sull’importanza di questa epigrafe, specie sulla sua datazione,
poiché, attesa la sua collocazione sulla parete di fondo, costituisce
l’unica testimonianza che la crociera della chiesa nel 1693 esisteva già
e che quindi il prolungamento del tempio al lato est in quell’epoca era
già avvenuto.
La "piccola sagrestia con una stanzetta sovrastante ad uso cucina", a
cui fa cenno la relazione, va, a mio avviso, localizzato al lato nord
della chiesa, dove è stata posta sempre la sagrestia, anche nei decenni
successivi fino ai nostri giorni, e dove avvenne uno dei due ampliamenti
dell’edificio sacro nei susseguenti lavori di restauro degli anni
1891-94. L’altro si ebbe, come vedremo, al lato sud.
Al primo piano, sempre secondo la medesima relazione del 1874,
ritroviamo le tradizionali n. 11 stanze dell’abate d. Federico de
Mamlion, tre sul fronte della chiesa sopra il portico e quattro per
parte sulle due navette laterali, che nei 5 giorni della festa servivano
per il clero e per il personale laico addetto alla cucina e agli altri
servizi della chiesa.
Esse formavano "una specie di romitorio", come dice l’abate Terenzio,
dove non sempre abitava l’eremita Marianna Ferrante e che, pur se
anguste e disadorne, ma tuttavia necessarie e preziose per quelle
altitudini, dove non esistevano altre abitazioni, sopravviveranno fino
alla ristrutturazione generale del 1978-83 del santuario;
2) La devozione alla Madonna e i pellegrini. L’amore alla Vergine
di Canneto nel corso del sec. XIX aveva fatto un balzo in avanti al
punto che i due antichi e tradizionali giorni della festa (il 21 e 22
agosto) non erano più sufficienti per poter far fronte alle necessità
religiose delle moltitudini di pellegrini e perciò col tempo si
aggiunsero gradualmente altre tre giorni di sosta e di preparazione alle
celebrazioni annuali, portando a 5 i giorni delle feste (dal 18 al 22
agosto), come avviene ancora oggi.
Il motivo fondamentale di questa vigorosa crescita spirituale stava nel
forte richiamo, che esercitava sulle popolazioni "la prodigiosa Statua
di Maria SS.ma" e la fama che Lei "dispensa infinite grazie e le più
difficili" ad ottenersi.
All’entrata in chiesa le compagnie dei fedeli si ponevano in ginocchio e
così disposte procedevano lentamente fino ai piedi del trono della
Madonna, dove scioglievano il loro voto ed imploravano le grazie.
I devoti, che avevano un particolare debito di gratitudine verso la
Vergine, strisciavano la lingua per terra fino al suo altare. L’uso
durato fino all’ultimo dopoguerra, per ovvi motivi, è oggi del tutto
scomparso. Ma più di qualche compagnia di antica tradizione di Canneto
ancora oggi entra in chiesa in ginocchio;
3) Il re Ferdinando II e l’eremita Marianna Ferrante. Li abbiamo
già ricordati nella puntata del precedente numero del Bollettino di
Canneto. Furono gli artefici principali dei restauri del 1853-57;
4) Le due statue. Inamovibilità del simulacro antico. L’una dal
volto scuro in legno di tiglio con il bambino attaccato al petto, di
autore ignoto, antichissima, che "restava sempre in quella chiesa" e
l’altra dal volto chiaro dello scultore Petronzio da San Germano in
dotazione dell’arcipretura di Settefrati, che veniva portata a Canneto
nei cinque giorni della festa, durante i quali rimaneva esposta
sull’altare centrale, circondata da ceri che ardevano giorno e notte.
L’una inamovibile, l’altra portatile e processionale. Il fatto che la
statua antica era "restata sempre in quella chiesa" e non si era mai
mossa dal luogo sacro aveva contribuito a creare il "mito" della sua
inamovibilità. Ma ad onor del vero che deve sempre prevalere, anche se
può dispiacere, la ragione principale di tale inamovibilità era quella
che il vetusto simulacro stava fissato alla sua nicchia, completamente
in legno, con un grosso chiodo a tergo, che fu ritorto quando la
scultura, all’inizio del ‘700, venne rivestita di abiti serici e cambiò
tipologia, cosa che avvenne anche per altre statue della nostra diocesi.
Il chiodo così ritorto, quasi a prova dell’alterazione subita
dall’immagine, è rimasto fino al recente restauro della preziosa
scultura.
Il "mito", di cui sopra , durò fino al manzo del 1948, quando la vetusta
effige di Canneto fu rimossa per la prima volta dalla sua sede
originaria e condotta trionfalmente attraverso i paesi e le città
delle tre diocesi e del Cassinate per la "peregrinatio Mariae".
33.
Il piccolo organo a canne (c. 1885)
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Nei documenti da me rinvenuti e qui, in questa ricerca storica, tenuti
rigorosamente presenti, anche se non citati in nota, non ho trovato
alcun cenno al piccolo organo a canne, esistente nella chiesa di S.
Maria di Canneto sulla cantoria dell’ingresso centrale del vecchio
santuario. Doveva essere abbastanza antico e perciò desidero darne
qualche notizia in questa pubblicazione.
Lo ricordo bene, anche per averlo suonato più volte da chierico,
studente di teologia, dal 1946 in poi, durante le feste della Madonna di
Canneto (18-22 agosto), quando non c’era ancora la strada carrozzabile e
il santuario si apriva solo in quei giorni.
Dal punto di vista della struttura generale (cassa armonica, canne e
loro disposizione, somieri, suoni, tastiera, registri laterali, piccola
pedaliera e mantice a mano) era assai simile a quello della chiesa
parrocchiale di S. Michele Arcangelo di Pietrafitta, frazione di
Settefrati, eretto, come dice chiaramente l’iscrizione posta sulla
cantoria, nel 1885, che don Antonio Molle, parroco anche di questa
chiesa, ha fatto recentemente restaurare con un riuscito intervento di
opera conservativa, che lo ha riportato in tutto all’originale. Un
piccolo gioiello di lavoro artigianale, tipico dell’epoca, da ammirarsi!
Sono d’avviso che il clero di Settefrati e in particolare l’arciprete di
S. Stefano, che, come si è già rilevato nella puntata precedente, era
anche "vicario curato di Canneto", abbiano fatto costruire in
quell’epoca, se non proprio nello stesso anno (1885), ambedue gli organi
a canne di Pietrafitta e di Canneto. Perciò nel titolo del presente
paragrafo ho datato quest’ultimo strumento circa il 1885.
Il piccolo organo del santuario si presentava così: nella cassa armonica
con due sportelli protettivi mobili sul davanti, che servivano a
preservarlo da ogni agente nocivo esterno, specie dalla polvere, e che
venivano aperti solo al momento di suonarlo, si allineava sui somieri
una prima fila di canne, disposta in forma piramidale (la più alta al
centro e le altre in ordine decrescente ai due lati); seguivano
all’interno, l’una dietro l’altra, altre quattro o cinque file di canne,
posizionate, in ciascuna serie, in ordine decrescente, corrispondenti ai
singoli registri. Sul fondo stavano alcune canne più grosse, che
fungevano da bassi; erano in legno, mentre tutte le altre risultavano di
stagno scuro.
Al di sotto della prima fila di canne erano sistemati un piccolo leggio
e la tastiera, composta di poco più di tre ottave di tasti; gli ultimi
tasti a sinistra erano bassi, congiunti con una minuscola pedaliera. I
collegamenti tra tasti, somieri e pedali avvenivano mediante un
ingegnoso dispositivo di fili di ferro, di levette e molle.
A destra della tastiera erano situati i registri, assai piccoli, in
metallo con pomelli di ottone ornato e posti in due file verticali
(quattro e due per parti). Di tre ne ricordo anche i nomi: Principale,
Voce umana e Ripieno. A sinistra dell’organo era sistemato il mantice,
azionabile a mano mediante una leva di legno e in posizione verticale a
causa delle ristrettezze del luogo.
Difatti la cantoria, sebbene lunga quanto la navata centrale, risultava
poco larga ed era protetta verso l’interno della chiesa da una robusta
ringhiera e alle spalle da un divisorio in legno, che ad altezza d’uomo
era fatto a grata, consentendo dagli appartamenti attigui anche la vista
del presbiterio e del trono della Madonna. Qui, nel corridoio antistante
la camera di centro, si trovava la porticina d’accesso alla cantoria.
Dal 1946 in poi, i miei anni di teologia, durante i cinque giorni della
festa noi chierici del seminario maggiore al suono d’organo eseguivamo
nella mattinata la Messa degli Angeli o la Messa "cum iubilo" della
Madonna e alla sera, nella funzione vespertina, cantavamo le litanie
mariane e i mottetti eucaristici a due voci: indimenticabili
composizioni di Perosi, Zimarino e Gubinelli, che già facevano parte del
nostro repertorio musicale, acquisito negli anni del liceo presso il
seminario minore di Sora.
Ma con l’inizio del mio rettorato di Canneto, dall’ottobre 1960 in poi,
per le feste di agosto si incominciò ad utilizzare un harmonium "Tubi"
portatile a cinque ottave, più dotato di potenza sonora e di altri
effetti musicali, che a sua volta, pochi anni dopo, fu sostituito
definitivamente da un nuovo harmonium più grande, efficiente e stabile,
che è ancora in uso nella sottostante cappella di Sant’Anna del nuovo
santuario.
Perciò l’antico piccolo organo di Canneto andò mano a mano in disuso e
con il passare del tempo decadde del tutto. L’attuale organo del
santuario, dono del sig. Giuseppe Pittiglio, oriundo di Sant’Angelo in
Theodice, e dei suoi amici statunitensi, è un trionfo di suoni, di canne
e di registri tra i più moderni.
34. Nuovo restauro ed ampliamento della chiesa. Prima
del 1891
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Questo è in ordine di tempo e di documentazione il quarto restauro
storico del santuario di Canneto, che veniamo a conoscere. Ci lasciamo
guidare anche questa volta da un’iscrizione e da due foto dell’epoca,
oltre che da una conoscenza diretta e dettagliata delle strutture in
oggetto.
1) Iscrizione del 1894
Si trovava murata nel portone centrale della vecchia foresteria,
demolita nel 1978 per far posto alla nuova costruzione più moderna e
funzionale, che sorge oggi accanto al nuovo santuario. L’iscrizione, che
fu tolta con cura e messa da parte, cadde inavvertitamente tra il
materiale di demolizione e di sterro, che le pale meccaniche caricavano
e trasportavano alla discarica e pertanto si è irrimediabilmente
perduta. Era un prezioso documento! Meno male che l’avevo già pubblicata
"ad litteram" nel volume "Il santuario di Canneto" … (1969, p. 280), da
cui ora la desumo.
Essa diceva così: "Con l’obolo / raccolto dai fedeli / restaurato ed
ingrandito il tempio / Agnese Massarella / eremita del Santuario / a
ricovero / dei devoti visitatori / di Maria SS.ma di Canneto / questo
edifizio / incominciato nell’anno 1891 / recava a termine nell’anno
1894".
Pertanto in quegli anni, giusta il senso dell’epigrafe, nel santuario di
Canneto ebbero luogo due grossi interventi edilizi in due periodi
successivi: nel primo, antecedente al 1891, furono realizzati lavori di
restauro e di ampliamento della chiesa; nel secondo, dal 1891 al 1894,
attiguo al tempio della Vergine, venne costruito il nuovo "ricovero dei
devoti visitatori di Maria SS.ma di Canneto", detto più comunemente
"Ricovero dei pellegrini" o foresteria.
Protagonista ed anima delle nuove realizzazioni, e questa volta da sola,
fu l’eremita di Canneto Agnese Massarella (1826-1910) di Settefrati,
succeduta in questo servizio presso il santuario a Marianna Ferrante
(1786-1876), anche lei di Settefrati, deceduta il 5 maggio 1876.
Ambedue, anime elette e timorate di Dio.
La Massarella, sull’esempio della Ferrante ed animata da non minore zelo
e tenace volontà di lei di rendere sempre più bello e accogliente la
casa della Madonna, munita solo della cassettina delle offerte con
l’effigie della Vergine Bruna, che abitualmente teneva al braccio con un
archetto di metallo sovrapposto, tipica delle eremite di Canneto,
peregrinò di paese in paese, e non solo per un anno, per raccogliere
presso i devoti sparsi dovunque gli aiuti in natura, in denaro e in
preziosi, necessari ai lavori, che lei, con il benestare del clero di
Settefrati, specie del suo arciprete, aveva in animo di realizzare.
Ma quella volta, come mai era accaduto nel passato, la chiesa di S.
Maria di Canneto, a causa della confisca di tutti i suoi beni, subita
nell’ottobre del 1877, aveva assoluto bisogno di un soccorso
straordinario del popolo devoto. La risposta dei fedeli all’appello
portato di casa in casa dall’eremita con umiltà e semplicità, ma con la
forza delle sue convinzioni, che vincono ogni dubbio e resistenza,
attese le opere eseguite, indicate dall’epigrafe, e le ingenti spese che
ovviamente dovette affrontare, fu più generosa e solidale che mai.
L’iscrizione del 1894 qui citata parla distintamente del restauro e
dell’ampliamento della chiesa, avvenuti prima del 1891, quando ebbe
inizio la costruzione del ricovero dei pellegrini. I primi lavori
relativi al restauro dovettero rendersi necessari anche per i gravi
danni sofferti dall’edificio sacro in conseguenza del sisma del 12
luglio 1873, che colpì particolarmente Val Comino.
Per i lavori, certamente più consistenti ed impegnativi, riguardanti
l’ampliamento del santuario, ci faranno da guida due rare e preziose
foto dell’epoca e, come detto, una conoscenza particolareggiata dei
luoghi e dei nuovi ambienti costruiti.
2) Due antiche foto della chiesa di Canneto (fine sec. XIX ed inizio
sec. XX): il nuovo portico e le nuove stanze soprastanti, costruiti
prima del 1891.
a) Lato sud-ovest della chiesa (foto n. 1)
Questa foto fu scattata qualche anno dopo il 1894, quando venne ultimato
il ricovero dei pellegrini o foresteria, che appare parzialmente a
destra dell’immagine. (A ridosso dei due ultimi archi laterali della
chiesa è visibile un deposito di pietre squadrate, non ancora rimosse,
che servivano alle due costruzioni del tempio e della foresteria).
Essa ritrae nelle sue strutture esterne il santuario, totalmente
rinnovato, uscito dai lavori di restauro e di ampliamento di quegli
anni. Il complesso appare in tutto il suo splendore e nel suo armonioso
disegno. Un’opera notevole per quei tempi, che, rispetto ai restauri del
1853-1857 (i terzi restauri storici di Canneto), segnava un grande passo
avanti nel progetto, sempre antico e nuovo che sta costantemente a cuore
a quella direzione, di rendere il santuario in ogni epoca più bello, più
accogliente e funzionale.
La foto fu scattata in uno dei giorni delle feste di agosto nel punto
giusto per avere la migliore inquadratura del nuovo sacro complesso.
Essa ritrae il nuovo prospetto, il lato sud, il tetto della chiesa con
in basso la casetta dell’eremita e parte del lato ovest del nuovo
ricovero dei pellegrini, inoltre la folla, che nei tipici costumi
dell’epoca fa ressa ai tre ingressi del tempio. In primo piano emergono
i grossi massi e le rocce, che alla fine del sec. XIX ingombravano
ancora il piazzale antistante.
Sul lato della facciata sono chiaramente visibili i due nuovi archi,
aggiunti uno per parte ai tre antichi archi centrali, e le
corrispondenti due nuove finestre soprastanti, che portavano a cinque le
stanze poste sul prospetto. Le cinque finestre di allora sono rimaste
anche nell’odierno prospetto. I due archi aggiunti non intercomunicavano
con quelli centrali, ovviamente per non indebolire i muri perimetrali
della vecchia chiesa con l’abbattimento dei rispettivi diaframmi.
In alto sono parimenti visibili il vecchio e il nuovo timpano, il
comignolo della cucina e il piccolo campanile con la campanella donata
dal re Ferdinando II, che con l’ampliamento della chiesa veniva
sistemato all’estremo angolo sud-ovest della nuova struttura. Il nuovo
portico costruito al lato sud, come risulta bene dalla foto in oggetto,
aveva tre arcate intercomunicanti e serviva per la sosta dei pellegrini
e per riparo di fortuna in caso di intemperie. Nell’ultimo arco a
destra, attiguo alla casetta dell’eremita, fu costruita una nuova
scalinata in pietra a due rampe, l’una esterna con la porta e l’altra
interna, che saliva al primo piano dei locali annessi alla chiesa.
Qui, di rimpetto alle vecchie stanzette edificate nel ’500 dal proposito
don Federico de Mamlion, furono fabbricati cinque nuovi vani: una stanza
per cucina, tre camerette e un pianerottolo. Delle cinque finestre, che
si vedono sul nuovo portico del lato sud, la prima, posta sotto il
campanile, apparteneva alla cucina, le tre susseguenti alle rispettive
camerette e la quinta dava luce al pianerottolo, che era munito per due
lati di una robusta ringhiera di ferro, posta a protezione sulla
scalinata d’accesso dall’esterno.
In fondo alla foto proposta, in alto, si staglia nettamente la struttura
della crociera della chiesa con uno dei suoi finestroni laterali.
b) Lato nord-est della chiesa (foto n. 2)
L’istantanea risale all’inizio del sec. XX. È una splendida inquadratura
del santuario restaurato ed ampliato prima del 1891 e della nuova
foresteria, ripresi ambedue al lato nord-est. La foto, scattata al di
qua del fiume Melfa, che a quell’epoca, come per secoli, attraversava
tutto il pianoro, ritrae uno dei giorni delle feste di agosto con la
baraccopoli sorta intorno alla chiesa e sciami di pellegrini, sparsi
lungo il pendio del poggio o che si immergono con i piedi fino alle
ginocchia nelle acque gelide della corrente per riti penitenziali e
propiziatori, che intorno alla metà del secolo scorso sono scomparsi.
L’ampliamento della chiesa al lato n ord comprendeva un piano terra con
volte ed archi in pietra e un primo piano, al quale si accedeva mediante
una scalinata interna a più rampe in pietra. Il piano terra era
costituito da un solo ampio locale con un finestrone al centro e con un
doppio accesso: dall’interno della chiesa e dal piazzale. L’ingresso
esterno più esattamente si trovava sotto il nuovo arco della facciata,
situato all’angolo nord-ovest e indicato dalla lunetta (vedi foto n. 2).
La nuova stanza, che era sorta a ridosso nella navetta sinistra della
chiesa e che risultava una delle più belle e più spaziose, fu subito
adibita a sacrestia e a sede straordinaria delle confessioni-uomini nei
giorni di maggior affollamento delle feste.
Nel primo piano, giusta la suddetta foto, si aprivano sei nuove
finestre: le due prime (da sinistra) illuminavano la scalinata e il
pianerottolo; le altre due corrispondevano a singole camerette; la
quinta dava luce al corridoio interposto tra le camerette della facciata
e la cantoria; la sesta era un piccolo bagno. Tutte e sei le finestre
sono rimaste invariate, ciascuna con la medesima funzione, fino al 1978,
anno della demolizione del vecchio santuario.
Per sistemare il locale-sacrestia vennero rimurate le tre finestrelle
basse , che per secoli avevano dato luce ed aria alla navetta sinistra
della chiesa, la quale per tale ragione divenne buia e alquanto tetra.
Da quel lato, all’interno del santuario, se ne vedevano ancora, in alto,
i tre incavi, che sono rimasti lì a ricordare fino al 1978.le mura
perimetrali della primitiva chiesa di Canneto
Per conformità architettonica dovettero essere rimurate, con le medesime
conseguenze di mancanza di luce sufficiente, anche le corrispondenti tre
finestrelle della navetta destra, a ridosso della quale, all’esterno del
lato sud della chiesa, era sorto il nuovo portico per la sosta dei
pellegrini con le soprastanti nuove camerette del primo piano.
Nell’unico incavo della primitiva chiesa, che era rimasto da questa
parte nell’interno del santuario, restò esposto per decenni la colonnina
ex voto di Mefite con la sottostante iscrizione, che ne ricordava
l’antico culto nella Valle di Canneto.
La nuova sacrestia era dotata di un monumentale ed artistico armadio in
noce sormontato da uno stipo dello stesso legno e stile, che ambedue
servivano rispettivamente per la vestizione dei ministri e per la
conservazione dei paramenti e degli arredi sacri. Il magnifico mobile
esiste ancora nella sacrestia dell’attuale santuario.
La scalinata in pietra, che dall’interno della chiesa o dalla sacrestia
portava al primo piano, era formata da quindici scalini: due all’inizio
con la porta, poi, convergendo a sinistra, altre tre con un piccolo
pianerottolo ed ancora a sinistra altri dieci, che terminavano in alto
con un pianerottolo più grande, dal quale, attraverso una delle finestre
qui poste si godeva un meraviglioso panorama della Valle; finestra, oggi
rimpiazzata da un balconcino aggettante, che spazia in una visuale più
ampia e suggestiva.
La crociera della chiesa, che appare nella foto n. 2, era quella
medesima dei secoli passati, che risultava completamente restaurata, sia
nelle pareti esterne, sia nella sua copertura. Al lato nord sono
visibili due finestroni che davano luce alla chiesa, ai quali
corrispondevano nel lato opposto altri due finestroni uguali e
paralleli. Restando nella parte nord della chiesa, proposta dalla
medesima foto n. 2, ai piedi della risega dei due muri perimetrali si
scorge una piccola tettoia, che copriva un’uscita laterale del santuario
a doppia porta, l’una, interna e l’altra, esterna, le quali si aprivano
solo nelle ore di maggiore affollamento.
Al lato est della chiesa (a sinistra della foto) appaiono tre lunette,
che si trovavano in alto nella parete di fondo del tempio: quella di
centro sovrastava l’altare maggiore; una laterale si trovava sull’altare
della cappella della Madonna, a destra di chi entrava in chiesa.
35. Il ricovero dei pellegrini o foresteria
(1891-1894)
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Se ne vedono in ambo le foto esaminate due buoni scorci: l’uno ad ovest
(foto n. 1) e l’altro ad est, anche se in lontananza (foto n. 2). La
costruzione si presentava esternamente come una elegante palazzina,
armoniosa e rifinita in ogni sua parte.
Fu una grande realizzazione dell’epoca, sia come edificio, poiché tutto
costruito in pietra locale: mura perimetrali, cornicioni, volte, archi,
telai di porte e finestre, davanzali; sia per la sua specifica funzione,
quella dell’accoglienza dei pellegrini. L’opera, come recitava
l’iscrizione posta sul portale principale, fu eretta dal 1891 al 1894
per iniziativa ed interessamento dell’eremita Agnese Massarella di
Settefrati con l’obolo dei devoti.
Poiché il manufatto è rimasto sostanzialmente immutato dal suo
originario impianto fino al giorno del suo abbattimento (1978) per dare
spazio a un edificio più solido, più moderno e funzionale, non mi è
difficile descriverlo, anche "ad perennem rei memoriam" e riconoscenza.
Era una strurrura molto semplice nel suo disegno generale, ma ben
costruita ed efficiente. Il suo prospetto principale era posizionato al
lato nord con tre ingressi al piano terra: uno al centro con all’interno
una scalinata in pietra, che portava al primo piano, e due laterali, che
davano accesso a due ampi locali, uno per parte, muniti di piccole
finestre. Aveva un primo piano costituito da quattro stanze, due per
parte, tutte provviste di regolari finestre, un magnifico cornicione in
pietra porosa lavorata, che faceva da cordolo di coronamento a tutto lo
stabile e una ben solida tettoia a due spioventi con coppi tradizionali.
I due locali al piano terra avevano ingressi propri, a destra e a
sinistra del portone di centro, con stipiti e portali in pietra,
simmetricamente uguali: erano stanze fatte a volte e ad archi in pietra,
con piccole finestre, munite di inferriata e disposte sui quattro lati
del fabbricato, tutte riquadrate in pietra, leggermente arcuate in alto
ed uguali. L’ingresso principale aveva un portale in pietra arcuato, sul
quale, come si è rilevato più volte, campeggiava l’iscrizione-ricordo
già esaminata. All’entrata si trovava subito la scalinata ad unica rampa
e senza ringhiera di ferro, che portava alle stanze di sopra e in fondo
al locale erano posti due piccoli bagni rudimentali. Tutto il vano era
rischiarato da luce naturale, proveniente dalla finestra centrale del
primo piano.
Qui da un piccolo pianerottolo si accedeva alle quattro camere, due per
parte, l’una interna all’altra senza corridoio di disimpegno, provvedute
di finestre regolari, anche queste, disposte sui quattro lati dello
stabile, tutte riquadrate in pietra, leggermente arcuate in alto e
simmetricamente uguali. La costruzione al lato est aveva anche un
piccolo seminterrato ad uso forno.
Il ricovero dei pellegrini per quasi un secolo ha risposto in pieno allo
scopo per cui fu costruito, dando ricetto ai devoti della Madonna nei
giorni della festa e, negli altri periodi dell’anno, offrendo ospitalità
quasi sempre gratuita a vari gruppi di persone: aspiranti salesiani,
seminaristi, soci di organizzazioni cattoliche o di ispirazione
cristiana, carbonai ed operai delle imprese edili e boschive, che hanno
lavorato nella zona prima e dopo l’ultimo conflitto mondiale.
Poi, deterioratosi nelle sue strutture generali per cause varie e
venendo meno la sua capacità recettiva, dal 1978 in poi, come si è già
notato, con la realizzazione di un nuovo progetto più idoneo alle
esigenze attuali del luogo, il vecchio ricovero fu sostituito totalmente
da un altro edificio più moderno, più ospitale ed efficiente.
Ma la vera peculiarità di questo nuovo stabile sta nel fatto che,
costruito in un sito completamente separato ed indipendente dalla
struttura del tempio mariano, abbia potuto accogliere tutti i servizi
logistici del santuario (dormitori, bagni, cucina, mensa, guardaroba e
posti di soggiorno), i quali per secoli erano sistemati a ridosso della
chiesa, condizionandone pesantemente l’ampliamento, lo sviluppo e la
stessa funzionalità.
36 La "voce" della stampa
nella seconda meta del sec. XIX: appare il popolare inno alla
Madonna di Canneto (1874).
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Un'elegia
alla
Vergine (1883).
Solo brevi accenni,
per la stessa ragione gia espressa nelle puntate precedenti, che cioe’ il paragrafo non
rientra propriamente nel tema della
presente ricerca. Tuttavia nell'articolo apparso nell'ottobre 1894 su
"II S. Benedetto" di Montecassino, e qui sintetizzato al n. 4, emergono
delle indicazioni relative alia chiesa di Canneto, che credo
opportune cogliere e sottolineare.
Nella seconda meta del
sec. XIX il nome della Madonna Bruna e della sua incantata valle ricorreva non solo
sulle labbra di migliaia e migliaia
di pellegrini, provenienti dalle varie province dell'Italia centro-meridionale,
ma risuonava anche sulle pubblicazioni e sulle riviste famose,
come "II S. Benedetto" e "La Civilta Cattolica".
1)
Nel 1869 Aniceto Venturini di Settefrati dava
alle stampe un suo opuscolo dal titolo: "Un pellegrinaggio al Santuario
di Nostra Donna del Canneto ovvero i
cinque giorni della sua festa" (Sora 1869).
L'autore, seguendo la
processione della Madonna dell'arcipretura, che il 18 agosto sale a Canneto e il 22
a sera fa ritorno a Settefrati in un trionfo di fuochi
pirotecnici, di luci e di folle, descrive ad uno ad uno i cinque giorni
della festa;
2)
Alcuni anni dopo
(1874) il Venturini scriveva il popolare inno alla Madonna di Canneto: "Sui
balzi in Canneto comparve Maria...", intitolandolo:
"A Nostra Donna del Canneto". Sono 18 strofette col ritornello di
quattro versi senari ciacuna, ispirate a due temi principali, cari alla pieta
popolare: 1'apparizione della Madonna alia pastorella, secondo la leggenda,
sorta storicamente proprio in quell'epoca, e le
glorie di
Maria.
Rime limpide e fluide,
come le acque del Melfa, che solo un cuore nutrito di affetto nativo verso la Madonna
Bruna, com'era appunto il suo autore, poteva
comporre. Canneto ad Aniceto Venturini aveva gia’ ispirato altre liriche,
come "L'apparizione" e "La boscaiola della Valle di Canneto".
A 135 anni dalla sua
composizione 1'inno "A Nostra Donna del Canneto" e divenuto uno
dei canti mariani piu popolari e diffusi in tutto il centro-sud d'ltalia, capace, per la
semplicita’ sia del testo letterario
sia della musica, facilmente orecchiabile, di fondere in un unico
immenso coro folle ingenti di pellegrini;
3)
"Elegia alia Madonna di Canneto"
("In Virginem Canneti elegia"), datata il 18 agosto 1883 e composta
in 17 distici latini dal prof. d. Antonio Papa, canonico della chiesa
parrocchiale di S. Maria e S. Marcello di S. Donato V.C. Le
innumerevoli folle di pellegrini, che nei giorni della festa salgono esultanti
per impervi sentieri sull'alto Canneto, i loro canti religiosi, i
monti e le selve d'intorno, i fiori, gli
uccelli, le limpide sorgenti
del Melfa, 1'apparizione della Madonna alla pastorella e gli ex voto della
chiesa gli ispirano i piu’ nobili e delicati sentimenti verso la SS.ma Vergine.
II bellissimo carme
mariano, una delle perle letterarie del santuario di Canneto, nel 1998,
ai nostri giorni,e stato tradotto, commentato e pubblicato
dal prof. Luigi Gulia di Sora (L.
gulia, Laetantes ibimus omnes..., "Studi in memoriadi
Carlo Valeri,Ferentino 1998", pp. 273-277);
4)
"La Chiesa di Canneto nelle feste del 21 e 22 agosto 1894: gli ex voto e le grazie della Madonna" (da
"II S. Benedetto", ottobre 1894, periodico di Montecassino).
E una relazione
intorno alle feste di agosto 1894, scritta da un monaco
benedettino inglese, Padre Beda, ospite in quell'anno dell'abbazia di Montecassino,
il quale, sentendo risuonare i canti della Madonna di Canneto, volle essere
presente di persona alla grande manifestazione di fede in onore della
Vergine Bruna; relazione che nell'ottobre susseguente
venne pubblicata su "II S. Benedetto", periodico dell'abbazia.
L'illustre visitatore
descrive con precisione e a vivaci colori 1'arrivo dei pellegrini il 21
agosto nella valle di Canneto, il loro procedere in lunghe processioni con
il Crocifisso in testa, verso il santuario, al canto dell'Evviva Maria o delle litanie lauretane a
cori alternati; il modo di vestire delle varie compagnie; il loro
ingresso nella chiesa in ginoc-chio;
la lunga attesa intorno ai confessionali; poi il loro accamparsi nel pianoro, lungo le rive del
Melfa, compiendovi antichi riti penitenziali; quindi i falo e i canti
nella notte e infine, al primo mattino del 22 agosto, la loro
commossa partenza dal santuario.
Per quanto riguarda in
particolare la chiesa leggiamo: "La chiesa, che e assai grande,
1'ospizio attiguo, le vie, i boschi, le valli rigurgitano di fedeli devoti... In
mezzo ai ceri accesi, sopra 1'altare maggiore, e collocata
la statua della Vergine. Appena che i devoti quivi giungono, simile ad
un muggito del mare, echeggia fragoroso nelle volte del tempio un grido di "Viva Maria".
Quindi tutti si rizzano in piedi e vanno verso la navata destra, dove
trovasi l’antica statua di legno nero, risplendente d'oro e di pietre
preziose.
"Le muraglie attorno
sono tutte ricoperte di ex voti... La folla di pellegrini
che si accalca attorno a questa statua e tanta che stare in ginocchio
sarebbe lo stesso che volersi far schiacciare; percio’ tutti erano ritti e stretti gli uni addosso agli
altri, stringendosi ed urtandosi per poter accostarsi all'altare, luogo
dove propriamente avvengono miracoli.
"In quel giorno
avvennero due guarigioni portentose, delle quali una mentre io mi trovavo
in Chiesa. Un fanciullo di dieci anni muto dalla nascita, parlo gridando:
«Grazie, Maria». Da ogni parte, in mezzo alle lagrime di commozione,
scoppio un fragoroso applauso e piu’ lieto che mai di nuovo risuono
pel tempio il canto di «Viva Maria». Ometto altri particolari sulla festa.
L'articolista inglese
ci offre una magnifica visuale di Canneto e delle varie manifestazioni
di fede. Al centro di tutto stava la chiesa e il vicino
ospizio, gremiti di gente. Sull'altare maggiore troneggiava la Madonna del paese,
che veniva portata in processione al santuario e dopo alcuni giorni di
sosta riportata in parrocchia. A destra si trovava la cappella della
Madonna nera, dinanzi alia quale sostava in preghiera
una moltitudine immensa di pellegrini.
Le pareti della
chiesa erano tutte tappezzate di ex voto, vere testimonianze
di riconoscenza alla Vergine e di grazie ricevute. Quell'anno presso
1'altare della Madonna si erano verificate due guarigioni
rniracolose. Ad una di esse fu presente anche il Padre Beda, che ne fa menzione nel suo articolo;
5) "Una
meraviglia di Santuario nei boschi" (1897)
E questo il titolo di
un articolo uscito su "La Civilta Cattolica" del 21 giugno 1897 (pp.
638-640). E ancora un diario delle feste di Canneto
ovviamente dell'anno
precedente, scritto su un rapporto orale di un testimone oculare. Sono tre pagine nitide,
scorrevoli, ricche di colorito e di
diffuso stupore dinanzi al sacro spettacolo che da secoli si ripe-te
ogni anno sui monti di Canneto.
Lo scrittore
inizia con una puntualizzazione storica e geografica del santuario,
affermando che "Tra i grandi e molti santuari di Maria in
Italia e assai notevole quello di
Canneto, in provincia di Caserta, benche’
poco noto nell'Alta Italia". Segue la descrizione dei luoghi: la valle, le boscaglie, il fiume e
quindi della festa vera e propria, che a grandi linee gia
conosciamo.
II 22 agosto di
quell'anno, come apprendiamo dall'articolo, a conclusione
delle feste di Canneto, che come sempre coincidono con il solenne
ritorno della statua parrocchiale a Settefrati, d. Loreto Terenzio, parroco
del luogo, indirizzava al S. Padre il seguente telegramma: "Un popolo di oltre 60.000
persone e di molte province, riunito ai piedi della Vergine di
Canneto, colla piu’ profonda pieta e con 1'avita fede saluta il Vicario di Cristo e ne implora la
benedizione".
L'Augusto Pontefice,
accogliendo il filiale omaggio, si congratulava con tutti per tanta fede
ed inviava al clero e ai fedeli 1'implorata apostolica
benedizione.
37 Nell'agosto del 1903
il vescovo di Sora mons. Antonio lannotta fu presente a Canneto durante
le feste della Madonna.
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Lavori di
riparazione alia chiesa. Fu un vero
avvenimento. Era la prima volta, secondo anche queste mie ultime ricerche
storiche, che un vescovo di Sora, cavalcando per mulattiere irte e
sassose tra selve e balze scoscese, saliva di persona al santuario di Canneto
e per giunta nel ferragosto, durante le tradizionali
feste della Madonna. Nei secoli passati i vescovi sorani, trovandosi
in sacra visita a Settefrati,
avevano di volta in volta delegate i loro con-visitatori a
recarsi alia chiesa di Canneto e a redigere una relazione scritta della
loro visita.
In quell'epoca il
presule non era piu giovane; difatti aveva 56 anni di eta ed era al secondo anno del suo episcopato
sorano. II suo pellegrinaggio a
Canneto rientrava nell'ambito della sua prima sacra visita alle
parrocchie di Settefrati, che aveva programmata di compiere proprio in
quei giorni del ferragosto.
II 18 agosto nel primo
pomeriggio, come ci riferiscono gli Atti della sacra visita, insieme
con il canonico cancelliere vescovile e il suo segretario particolare egli partiva alla
volta di Settefrati, dove verso
sera veniva accolto dall'arciprete d. Gaetano Vitti, dall'abate d.
Enrico De Vecchis, da altri chierici e da gran popolo. Entrato
nella chiesa madre di S. Stefano,
parlo alla comunita’ ed imparti la benedizione con la pisside.
Nella
relazione seguono alcune notizie sulla storia della chiesa di Canneto
che noi conosciamo con maggiore esattezza grazie ai vari documenti originali rigorosamente
consultati e qui tenuti presenti, come la sua appartenenza un
giorno, dal 1288 al 1569, all'abbazia di
Montecassino, il suo cospicuo
patrimonio fondiario, che il vescovo di Sora Gigli trasferi’ al seminario
per il sostentamento economico del pio istituto ed infine la
confisca di tutti i suoi beni che furono venduti
all'incanto.
Di fronte a quelle
moltitudini osannanti, che in quei giorni di agosto, partendo dai paesi
piu lontani e diversi, confluivano a Canneto in un susseguirsi
ininterrotto di processioni sempre piu’ numerose e piu’ folte, il vescovo
senti’l il suo animo traboccare di gioia e di immensa benevolenza verso quelle folle di credenti.
Per i giorni della
festa 1'arciprete Vitti, al fine di avere un valido aiuto nell'assistenza
religiosa ai pellegrini, specie nell’amministrazione del Sacramento della
penitenza, aveva chiarnato quattro Padri Gesuiti: P. Lazzarini, P. Fabri,
P. Roccis e P. Rosati con molti altri sacerdoti. Anche il vescovo con
il suo cancelliere e il suo segretario prestarono ben volentieri la loro
opera nell'ascolto delle confessioni e nella distribuzione
della SS.ma Eucaristia.
Mosso e commosso da
quella sterminata moltitudine, che bramava tanto riconciliarsi con Dio,
il presule formulo’ il proposito di chiedere alla S. Sede la
concessione di un'indulgenza plenaria alia chiesa di Canneto per tutti
coloro che con le dovute disposizioni 1'avessero visitata
in futuro, cosi come era avvenuto nel passato anche il piu remoto.
Nella
relazione si rinvengono altre notizie di cui alcune utili anche
alla presente ricerca. Difatti vi
si conferma che 1'antico simulacro della Madonna si trovava a destra ("al
lato dell'epistola dell'altare maggiore")
di chi entrava ed era oggetto di grande pieta’ da parte dei fedeli.
La Vergine invocate con il titolo di Madonna di Canneto elergiva
moltissime grazie, come testimoniavano gli ex voto appesi sulle pareti.
Molti altri ex
voto d'oro e d'argento ricoprivano totalmente la veste
dell'immagine ed affinche’ tali
preziosi non rimanessero in balia di chiunque, il vescovo dava
mandato all'arciprete Gaetano Vitti e al
sacerdote d. Vincenzo Terenzio di
Settefrati di inventariare e descrivere singolarmente detti oggetti,
facendone una dettagliata relazione alia curia vescovile.
Riguardo al simulacro
della Vergine la relazione fa rilevare che 1'immagine
in origine era di color nero, ma in seguito per maldestri restauri
divenne di color bruno ("Simulacrum B.mae Virginis olim coloris nigri, modo ob
restaurationem male peractam colorem habet fuscum").
In merito alle
cose da farsi quanto prima, il vescovo ordinava di restaurare 1'altare maggiore, che
aveva bisogno di molte riparazioni, specie vicino al tabernacolo; di
costruire "ex novo" 1'altare laterale della Madonna; di
completare i lavori delle due navate laterali e di provvedere dei
paramenti piu decenti per il servizio divino.
Infine per
quanto concerneva il culto e le sacre funzioni nella chiesa di Canneto tutto rimaneva affidato
alla responsabilita’ dell'arciprete Vitti, ma "sotto 1'assoluta
dipendenza del vescovo" ("sub absoluta dependentia Episcopi").
Passati i cinque
giorni della festa, il vescovo mons. lannotta, accompagnato
dal suo cancelliere e dal suo segretario particolare, tornava a
Settefrati, dove al mattino del 23
agosto proseguiva la sacra visita alle chiese parrocchiali e non
parrocchiali del paese: S. Stefano, S. Maria della Tribuna, S.
Felicita e la Madonna delle Grazie.
Alcune
annotazioni
Rileviamo
innanzitutto come grazie alla relazione o decreto di questa sacra visita alle parrocchie di Settefrati,
conservato presso l’Archivio
storico diocesano, veniamo a conoscere alcune importanti notizie storiche
del santuario all'inizio del sec. XX.
In primo luogo
riceviamo la conferma di quanto riferiva nell'ottobre 1894 "II S. Benedetto",
periodico di Montecassino, che cioe’ la cappella
della Madonna era posta in fondo a destra della chiesa; che 1'antico
simulacro era rivestito ed appariva
tutto ricoperto di oggetti d'oro e d'argento e che le pareti all'intorno
erano tappezzate di ex voto, segni
di riconoscenza e di grazie ricevute dalla Vergine. Poi si hanno le notizie
inedite che seguono.
La statua lignea della
Madonna in origine era di color nero, ma poi a causa di inesperti restauri ha assunto una
colorazione scura o bruna. Per
espresse disposizioni del vescovo visitatore 1'altare maggiore andava debitamente restaurato,
mentre 1'altare laterale, proprio della Vergine, che evidenziava
uno stato di avanzata decadenza, doveva
essere ricostruito totalmente; un
impegno questo che 1'eremita Agnese Massarella di Canneto, come ci
risultera dal paragrafo seguente, volle assumere in prima persona e
portarlo generosamente a compimento, raccogliendo numerose e
generose offerte tra i devoti.
Le due navate
laterali da completare, a mio avviso, dovevano essere
i due nuovi locali, che, come si e’
riferito ampiamente nella puntata precedente, erano stati costruiti
intorno agli anni '90 ai lati opposti della chiesa per ampliarla, i quali
nei due primi decenni del sec. XX, adeguatamente sistemati,
sarebbero diventati rispettivamente sagrestia, a nord, e
penitenzieria-donne a sud.
Infine la conferma
dell'arciprete Gaetano Vitti a responsabile del culto e delle altre
funzioni nel santuario con la postilla di "sotto 1'assoluta dipendenza
del vescovo", stava, a mio parere, a significare che da allora in poi ogni
iniziativa di rilievo ed ogni lavoro di restauro della chiesa di S.
Maria di Canneto dovevano essere programmati ed eseguiti d'intesa e
con il benestare del vescovo diocesano.
Difatti fino a
quell'epoca il clero di Settefrati, in particolare 1'arciprete, nella
cui parrocchia si trova collocato il santuario, nonche’ le eremite, pur
avendo realizzato insieme opere imponenti, come 1'ampliamento della
chiesa e la costruzione del ricovero dei pellegrini, avevano agito troppo
autonomamente, quasi ignorando 1'autorita’ diocesana,
che in effetti non risulta coinvolta ne interpellata in nessuno dei
documenti qui esaminati.
Con tale
riserva mons. lannotta intendeva far sentire maggiormente
la sua presenza e la sua autorita’
nella gestione del santuario e ne aveva tutte le ragioni, dal momento
che la chiesa di S. Maria di Canneto era divenuta un centro di
spiritualita mariana di primo ordine e di grande risonanza
interregionale, come lui stesso aveva potuto constatare di
persona nelle feste di agosto del 1903, vedendo ed
incontrando migliaia e migliaia di
pellegrini confluiti dalle varie province.
Prova di questa
accresciuta sollecitudine ed impegno da parte del
vescovo e della
diocesi per lo sviluppo spirituale e materiale del santuario,
oltre quella di eseguire quanto prima le opere prescritte su indicate,
era 1'obbligo imposto all'arciprete Vitti e a d. Vincenzo Terenzio di
inventariare gli oggetti d'oro e d'argento della statua della Madonna e
di presentarne una relazione esatta alia curia vescovile ("ad Curiam
rationem exactam ferrent"). In seguito 1'arciprete dovra esibire ogni
anno al medesimo ufficio un dettagliato resoconto spirituale e
finanziario delle feste di Canneto. La prima relazione del genere con
calligrafia e
firma del detto arciprete, che si rinviene presso 1' Archivio storico
diocesano, giusta le mie attuali ricerche, porta la data del 15 settembre
1912.
38 II nuovo altare alla
Madonna (1909): un ricordo dell'eremita Agnese Massarella.
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Nel 1909, nella
cappella della Madonna, situata in fondo alla navata laterale destra, grazie ancora una volta
all'intraprendenza dell'infaticabile eremita Agnese Massarella, veniva
realizzato un nuovo altare alla
Vergine di Canneto, tutto risplendente di marmo con varie decorazioni
policrome e con due gruppi di tre gai angioletti a rilievo finemente
scolpiti intorno al tabernacolo.
Ce lo
ricordava una breve e semplice epigrafe, che e rimasta murata in uno dei pilastri centrali vicini
al presbiterio fino all’inizio dei lavori
di ristrutturazione del santuario nel 1978 e che recitava, cosi:
"Nuovo altare ad opera dell'eremita Agnese Massarella. 1909". Un disegno
e una realizzazione di veri artisti!
Con questa magnifica
e preziosa opera, oltre a rendere un omaggio d'amore e di riconoscenza a Maria SS.ma, si
dava compimento anche a una delle
disposizioni vescovili della sacra visita del 1903, che prima di essere un'imposizione di mons.
lannotta era un suo vivissimo desiderio, innamorato qual era della Madre
di Dio; disposizione che faceva obbligo agli amministratori del
santuario di innalzare alia Regina delle nostre valli un nuovo
altare, degno del suo augustissimo nome.
Nei lavori di
prolungamento del 1951-1957, che, come si riferira in seguito, diedero all'antica chiesa di Canneto
una nuova abside con la cappella e
il trono della Madonna non piu' a lato, ma nella navata centrale
in posizione dominante, tale altare venne accuratamente smontato e qui
ricomposto, acquistando nella prospettiva generate della nuova opera un
maggior rilievo e valenza artistica.
Ma, dopo la
ristrutturazione totale del santuario, non potendo piu’ in alcun modo essere
riutilizzato nella nuova chiesa di stile moderno, esso venne donato
all'arcipretura di S. Stefano di Settefrati, nella quale ancora oggi si
puo ammirare. Difatti e situate nella cappella del SS.mo Sacramento o del S. Cuore di Gesu, dove
tante volte in questi ultimi anni
anch'io ho celebrate il Divin Sacrificio con piacere e commozione,
ricordando le glorie mariane del passato.
L'altare di
marmo del 1909 fu per la pia e generosa eremita il suo ultimo umile omaggio alia Madonna
Bruna, che lei amava chiamare: "la Mora Nera", "la bella Zingarella".
Era il canto del cigno. Difatti 1'anno seguente, il 18 febbraio
1910, dopo oltre 30 anni di fecondo ed edificante servizio alla chiesa di
Canneto, ricca di meriti davanti al Signore e rimpianta da tutti,
all'eta di 84 anni, chiudeva a Settefrati i suoi giorni. Qualche anno dopo,
riprendeva la sua opera a Canneto una nuova eremita: Giuseppa
Crolla di Picinisco.
39 II grande
pellegrinaggio del 1910 (dal
volume: A. lauri,
Settefrati ed il Santuario di Canneto..., Sora 1910).
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In tale anno Achille
Lauri, storico sorano, nella sua monografia dal titolo: "Settefrati ed
il Santuario di Canneto nella leggenda e nella sto-ria,
Sora 1910", la prima vera pubblicazione del genere sulla nostra chiesa,
tra 1'altro, traduce in cifre e in localita il pellegrinaggio alia
Madonna Bruna di quell'anno durante i
5 giorni delle feste di agosto.
I devoti convenuti
furono a un dipresso 60.000, accorsi da circa 170 paesi delle province di Caserta, Campobasso,
L'Aquila e Roma. Di questi ne
elenca nominalmente ben 94, che, come asserisce lo stesso autore, erano singolarmente da
ricordarsi, perche davano un maggiore contingente di pellegrini. Ne
trascriviamo qui, per ragioni di sintesi, un buon numero, raggruppandoli
possibilmente per province e vallate.
La lunga lista inizia
con Roccasecca, Aquino, Pontecorvo, Cassino, Cervaro, Piedimonte
S.G., S. Elia F.R., Belmonte Castello, S. Giorgio a Liri, S. Apollinare,
quindi prosegue, citando molti paesi del Sorano con Sora in testa; poi
troviamo nella Valle Roveto: Balsorano, S. Vincenzo V.R.,
Civitella Roveto e Morino; quindi verso Roma: Anagni, Ferentino,
Alatri, Veroli, Anticoli, Guarcino, Collepardo, Vico del Lazio, Fumone,
Morolo, Supino; nel Frusinate: Frosinone, Roccasecca dei Volsci, Prossedi (Lt), Piperno
(Lt), Ceccano, Ripi, Arnara,
Torrice, Boville Ernica, Monte S. Giov. Campano, Ceprano, Castro dei
Volsci, Pofi, Amaseno, Pastena, Vallecorsa, Formia (Lt).
Nel Cassinate: Esperia,
S. Giov. Incar., Castrocielo, Caprile, S. Vittore nel L., Vallerotonda,
Viticuso. Nelle valli del Volturno:
Venafro, Isernia, Forll del Sannio, Baranello, Pizzone, Rocchetta al Volt., Carovilli, Mont'Aquila,
Roccasicura, Capriati al Volt., Sesto Campano. Nel Fucino:
Collungo; nell'alto e medio Sangro: Scanno, Alfedena, Civitella Alfedena,
Villetta Barrea, Barrea, Opi, Pescasseroli, Pescocostanzo ed
infine quasi tutti i paesi di Val Comino (Ibidem,pp. 17-18).
Con questa lunga
enumerazione di nomi (molti altri, come gia’ precisato,
sono stati omessi per le ragioni suddette) il pellegrinaggio di Canneto usciva dal suo secolare
anonimato, che ne aveva fatto una indistinta ed informe moltitudine di
gente senza una patria precisa, per rivelarsi un insieme
grandiose di popoli con nomi, tradizioni, usi e costumi propri, confluenti dai
luoghi piu diversi e lontani, per rendere alia Vergine di Canneto
un corale tributo di amore e di riconoscenza.
Paesi e citta’, quelli
menzionati, che insieme ad altre centinaia di nuove localita’,
continuano ancora oggi a visitare ogni anno il nostro santuario.
Per la verita
storica va qui segnalato il grosso abbaglio in cui incorre il Lauri in questa sua monografia,
attribuendo alia nostra chiesa di S. Maria di Canneto sul Melfa le
citazioni delle bolle papali e dei privilegi imperiali (indirizzati
a Montecassino), che invece appartengono esclusivamente all’omonima chiesa
di S. Maria di Canneto sul Trigno (Ibidem, pp. 21-23). La
notevole svista, dovuta soprattutto all’omonimia
delle due chiese benedettine sul Melfa e sul Trigno, fu da me doverosamente
rilevata gia’ nel 1986 nella mia pubblicazione sulle "Abbazie benedettine" (p. 88 n.
187).
Continua...
Mons. Dionigi Antonelli
CONTINUA
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